Enciclopedia delle Donne - XIV capitolo - La Baronessa di Carini - Storia di uno dei tanti femminicidi del XVI secolo

 




La città di Carini è posta a pochi chilometri da Palermo (28 km ad ovest ) ed è conosciuta per le sue spiagge piuttosto che per l’arte e la storia.
È ubicata su uno sperone rocciosa circondata da alte colline con qualche bosco di pino d’Aleppo e da coltivazioni di ulivi e d’agrumi.
Coltivazioni che con il passare del tempo hanno subito una forte diminuzione della superficie a causa dell’abusivismo edilizio e degli incendi.


Carini sarebbe l’antica Hykkara e il suo nome deriverebbe dal nome di un pesce (Hykas o Ikkaron) molto diffuso nella zona.
Nel territorio sono presenti varie testimonianze archeologiche risalenti al periodo preistorico con abitazioni in grotte. La fondazione della città risalirebbe al XIV secolo a.C.
Fu distrutta del 414 a.C. dagli Ateniesi di Nicia che schiavizzarono gli abitanti.
Tra gli schiavi, secondo una leggenda, ci sarebbe stata Laide, la bellissima etere carinese che fu apprezzata da Euripide, Aristippo e dal altri greci illustri.
Hikkara fu ricostruita più in alto e prese una notevole importanza nell’alto medioevo, diventando vescovato e con la conquista araba fu chiamata Ikkar o Qarinis.
La città fu distrutta da Ibrahim, emiro d’Africa, e gli abitanti furono costretti a rifugiarsi nelle grotte presenti nel territorio.
Qarinis rinacque in un nuovo sito, poco più a Nord, e sotto la dinastia araba dei Fatimiti riacquistò la sua originaria importanza che toccò il culmine con la dominazione Normanna.
Al Idrisi ne celebrò le sue bellezze e le ricchezze perché era un importante centro d’esportazione di mandorle, fichi secchi, carrube che via mare raggiungevano paesi lontani. 

Villagrazia di Carini (Frazione di Carini)
Affresco in una catacomba paleocristiana (III secolo d.C.)




…… tra torri, bagli e ville nobiliari”.

Ma la cittadina è famosa  per due aspetti tragici:
-        la Sciagura Aerea del 1972, il cui teatro fu la vicina Montagna Longa, che si allunga a ovest della città verso il mare e quindi verso l’aeroporto di Punta Raisi; 


- la tragica storia della “Baronessa di Carini” dove il castello fu teatro del terribile assassinio di Donna Laura Lanza. Un storia di sangue che fu immortalata da molte ballate popolari del Seicento e in dialetto siciliano:
La Barunissa di Carini.
Signuri patri, chi vinistu a fari? - Signura figghia, vi vegnu ammazzari.
(Signore padre, che cosa siete venuto a fare?
Signora figlia, sono venuto ad uccidervi)

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Indice
Storia
Famiglie (Abbate, La Grua, Talamanca) – La tragedia di Donna Laura Lanza di Trabia, baronessa di Carini, avvenuta il 4 dicembre 1563 – Il matrimonio di Donna Laura con Vincenzo La Grua Talamanca – Ludovico Vernagallo e il Feudo di Montelepre.
Fu veramente un delitto d’onore ?
La lettera di Cesare Lanza al re di Spagna.
Dive fu sepolta Donna Laura Lanza?
Il Certificato di morte di Donna Laura Lanza e di Ludovico Vernagallo.
L’Atto di battesimo di Donna Laura Lanza.
Omicidio della Baronessa di Carini – Riaperto il caso.
Il mistero dell’omicidio svelato dopo 500 anni?
La sepoltura della baronessa di Carini si trova nella cripta della Chiesa Madre.
Sepoltura ed atto di morte di Laura La Grua.
Un documento inedito svela la presenza di Ludovico Vernagallo a Montelepre. È qui che avvenivano gli incontri segreti con la baronessa di Carini?
 
La Baronessa di Carini nel Teatro e nel Cinema
Baronessa di Carini – Tragedia di Giuseppe Mulè
“L’Amaro caso della Baronessa di Carini” – Sceneggiato della Rai (1975)  - Video
“La Baronessa di Carini” – Sceneggiato Rai (2007) – Video
 
Castello di Carini – Architettura
 
Altri delitti “d’onore” del passato
Donna Aldonza Santapau (cenni)
Donna Maria D’Avalos
 
Note
1.     La Famiglia Abate;
2.      Casato La Grua – Talamanca;
3.     Il castello di Montelepre;
4.      La cripta/cappella dei Lanza nella chiesa di Santa Cita (Mamiliano) a Palermo;
5.     Giuseppe Mulè – Opera lirica:  Baronessa di Carini;
6.     “L’Amaro caso della Baronessa di Carini”, sceneggiato  Rai del 1975 diretto da Daniel D’Anza;
7.     “La Baronessa di Carini”, sceneggiato Rai del 2007;
8.     Le Chiese di Carini indagate per la sepoltura di Donna Laura Lanza – Chiesa: Le Anime Sante del Purgatorio;
9.     Siti Archeologici di Carini;
10.  L’Ultimo delitto d’onore in Sicilia fu nel 1964 – Franca Viola, la prima donna in Italia a rifiutare il matrimonio riparatore – Codice Rocco e le sue conseguenze.
……………………………

 Storia

Nel 1072, la Sicilia era sotto la sovranità Normanna, Ruggero I di Sicilia assegnò la baronia di Carini al feudatario normanno Rodolfo Bonello, un valoroso guerriero.
Il Bonello fece quindi edificare verso la fine dell’XI secolo una fortezza che dominava il territorio.
L’ 1 febbraio 1240 l’imperatore Federico II concesse al maestro Roberto de Panhormo e ai suoi eredi tre tenimenti di terre, dei quali uno
«in contrata Canni prope Panhormum tenimentum casalis ditti
Rachalsarcadi, tenimentum casalis Capacis et tenimentum Montis Colubrini
posita infra tenimentum casalis et tenimenti Carini et alios pecios terrarum in
contrata fluminis Animarat et portam maris Panhormi, alium pecium terre
extra portam Thermarum Panormi» (Asp, Camporeale, 260, 1).

"nel contratto di Canni, presso Panhorm, il caseggiato della casa di Ditti
Rachalsarcadi, il caseggiato del casolare Capacis e il caseggiato di Montis Colubrin
posto al di sotto del caseggiato del casolare e del caseggiato di Carinus e 
di altri appezzamenti di terreno in
il fiume Animarat e la porta del mare Panhorm, un altro pezzo di terra
fuori della porta delle Terme di Panormi” (Asp, Camporeale, 260, 1).
Rainaldo da Palermo possedeva il tenimento del Casale di Cinisi, del valore di 8 once d’oro che fu successivamente concesso da re Manfredi, figlio di Federico II, nel giugno 1264 a Matteo Pipitone.
 (Asp, Tab. S. M. Scale, 2).
 Il feudo ed il castello passarono quindi a Palmerio Abbate (Abate)(nota n.1) nel 1283

Stemma famiglia Abbate (Abate)

Il nuovo feudatario diede subito avvio ad una serie di trasformazioni architettoniche che finirono con il modificare la tipologia del castello da “opera difensiva” a “opera residenziale”.
Nel 1300 era presente nel territorio di Carini la nobile famiglia Aibar, Yvar o De Yvar, della Navarra.
Il nobile dominus Garsia Eximenis de Yvar (milite) nel 1299 partecipò alla battaglia della Falconara e il 12.4.1302 con Bartolomeo Tagliavia fu inviato come ambasciatore di re Federico IIId’Aragona a Napoli (Finke, 1922, III, 111). Il 20.3.1308 era consigliere e familiare del re, maggiore ostiario e giustiziere di Palermo, Monreale e della terra di Carini (Toomaspoeg, 2003, 725; Asp, Misc.Arch. II, 127a, 142v)
(l’ostiario era un chierico a cui era conferito l'ostiariato cioè l’incarico  di aprire e chiudere la chiesa, custodirla, impedirne l'accesso agli indegni e suonare le campane).
L’Abbate si schierò a favore della nobile famiglia Chiaramonte e per questo motivo nel 1397 il re Martino I, incoronato da poco re di Sicilia,  dichiarò la famiglia Abbate “felloni” e furono quindi privati di tutti i beni.
Sempre con Martino I, della “Terra “di Carini  fu investito il “milites palermitano” Ubertino La Grua per i suoi importanti servizi prestati alla corona.
I La Grua erano una nobile famiglia di origine pisana passati in Sicilia nel XIV secolo.


I primi membri della famiglia giunsero in Sicilia dopo il 1330 e si fermarono nella piana di Terranova (Gela). Si dedicarono alla produzione ed al relativo commercio di cotone e frumento. Dopo circa sei anni di residenza a Terranova, Colo La Grua si trasferì a Palermo dove diventò Console di Pisa (ambasciatore) sostituendo “messer” Corrado de Vico.
Giunti a Palermo entrarono in contatto, anche con strategici matrimoni, con l’aristocrazia palermitana.
Il primo esponente dei La Grua ad entrare nella nobiltà palermitana, ingresso definito con un atto notarile del 10 dicembre 1367, fu Ubertino la Grua (detto anche “Bertino”), figlio di Colo, che assunse l’incarico di capitano giustiziere di Palermo (iudex felicis urbis Panormi) tra il 1336 ed il 1337.
Il primo La Grua ad avere la concessione del feudo di Carini fu un altro Ubertino, anche lui capitano di giustizia ma della Valle di Mazara e di Palermo nel 1396.
Ebbe anche l’incarico di mastro razionale del Regno, consigliere di Re Martino I di Sicilia (Il Giovane) e titolare della barona di Carini dal 26 agosto 1397 con il titolo di “1° Barone” di Carini.
I servizi prestati al re Martino I furono notevoli e gli permisero di entrare nelle grazie del sovrano ottenendo notevoli vantaggi:
- liberò i sovrani Martino e Maria che erano stati segregati dai ribelli nel castello di Catania e poi in quello di Licata;
- ebbe un ruolo importante nella lotta contro i rivoltosi appartenenti alla fazione dei Chiaramonte;
- riportò sotto il comando del Regno alcune terre della Val Demone e della Valle di Mazara, aiutato in questo da Giorgio Grifeo dei baroni di Partanna (come descritto da "Della Sicilia Nobile" di Francesco Emanuele e Gaetani, Marchese di Villabianca - edizione 1757).
Ubertino II (Alberto) sposò una nobildonna palermitana, Soriana de Lombardo. La coppia ebbe un’unica figlia, Ilaria La Grua e Imperatore.
La ragazza sposò nel 1402 Gilberto Talamanca, un nobile catalano, camerlengo e consigliere di re Martino I, capitano e pretore in Palermo dal 1396 al 1399.
Alle nozze fu presente lo stesso sovrano Martino I (il Giovane) che in questo modo evidenziò il suo appoggio alla fazione catalana contrapposta a quella latina dei Chiaramonte.

Scudo dei Talamanca

La famiglia Talamanca era una delle più importanti della Catalogna e giunse in Sicilia al seguito del re Pietro d’Aragona nel 1282 con Gilberto ed Uberto Talamanca, padre e figlio.
Una fonte ripetuta da Barnaba Moreno de Vengas (Nobiltà Spagnola); Giovan Candido (Famiglie nobili di Barcellona); Giovanni Vespertillo (Storia di Catalogna); Lopez de Haro, Giovanni Mariano, Martin Carrillo, Mugnos.
Uberto, al servizio del Re Federico III d’Aragona fu nominato Pretore di Palermo nel 1302. Ottenne dal re di Spagna Giacomo i feudi di Ragalcidi, Ambuali, Sambenedetto ed  Ambigalli. Ebbe due figli:  Federico e Matteo. Federico ottenne il titolo di Pretore nel 1346 mentre Matteo fu cavaliere e per i suoi meriti ottenne dal re Federico III d’Aragona la città ed il castello di Naro con il feudo della Delia.
Pirrone (Perrone), figlio di Matteo, ebbe dallo stesso Re citato, i seguenti titoli: marchese di Malta, Conte di Lipari e barone di Etna, Sutera e Mussomeli.
Un Bernardo fu capitano ed ammiraglio di re Martino I (il Giovane);  un Guglielmo capitano e gentiluomo sempre di re Martino.
Gilberto II, anche lui capitano e gentiluomo di re Martino, camerlengo del regno, Barone di Vicari e di Misilmeri, sposò Ilaria La Grua, di figlia di UbertinoII (Alberto), barone di Carini.
 La coppia diede alla luce un unico figlio. Ubertinello (Ubertino), nato nel 1403 che il nonno materno dichiarò suo erede universale.
istituito dal nonno erede universale con l’obbligo di assumere il cognome e
 l’arme della famiglia La Grua.
Un feudo che era quindi trasmissibile agli eredi o(discendenti) con l’obbligo di anteporre il cognome La Grua a Talamanca
(fidecommisso agnatizio primogeniale dato al loro figlio Ubertinello dal nonno Ubertino II)
Il matrimonio tra i due fu eseguito con privilegio di re Marino I (Il Giovane).
Gilberto Talamanca nel frattempo acquistò da Simone Valguarnera, con atto del 3 luglio 1408,  per 1000 onze la baronia di Vicari, riservandosi il diritto di riscatto dei feudi Lo Iardinello, Caffo, La Palumba, Li Freddi, Lo Garuso, Lu Gudurano e Bonifatu che allora erano pignorati; tale vendita fu confermata da re Martino il 30.7.1408 (Barberi, MC, 464). 
Si costituì la dinastia Talamanca – La Grua (nota n. 2), che rimase in possesso della baronia di Carini fino al 1812 con il barone Giovan Vincenzo La Grua Talamanca,  presente anche oltre oceano. Nell’aprile del 1796 Michele La Grua Branciforte fondò la città di Santa Cruz in California. All’inizio la città fu chiamata “Villa de Branciforte”, in onore del suo fondatore, e la denominazione rimase dal 1787 al 1845,. Oggi dell’antico fondatore rimase solo una delle vie principali a lui dedicata (Branciforte Avenue).

Stemmi La Grua Talamanca

Partito: nel 1° troncato, innestato, merlato d’oro e di rosso attraversato dalla grù con la sua vigilanza al naturale (La Grua); nel 2° losangato d’oro e d’azzurro (Talamanca)


Con l’abolizione del feudalesimo, avvenuta nel 1812, ed il trasferimento di Antonio Francesco La Grua a Parigi (1829) fece sì che agli antichi nobili rimanesse soltanto la proprietà del Castello.
Un castello “maledetto” che fu teatro di una tragedia che fu tramandata per secoli da una ballata popolare, ripetuta tante e tante volte da cantastorie itineranti.
La tragedia di Donna Laura Lanza di Trabia, baronessa di Carini, avvenuta il 4 dicembre 1563.
Nel XV secolo il castello fu oggetto di ripetute restauri e interventi architettonici che nel modificheranno, di continuo, il suo primitivo aspetto da “caserma o castello militare” a palazzo residenziale.
 Il protagonista in negativo della tragedia sarebbe don Cesare Lanza, barone di Trabia e Conte di Mussomeli, legato al potere dal viceré Ferrante Gonzaga ( in carica dal 1539  al 1557) e all’imperatore Carlo V.
I Lanza Branciforte, spesso chiamati Lancia, erano una nota famiglia italiana originatasi in Sicilia nel XV secolo. Derivava dal ramo cadetto dei Lancia dei Baroni di Longi, di origine aleramica.
Costituirono una della maggiore dinastie dell’aristocrazia siciliana.

Stemma Famiglia Lanza
Don Cesare Lanza aveva sposato la ricca vedova Lucrezia Gaetani. Dal matrimonio nacquero due figlie, Laura e Costanza.
Laura, ancora adolescente, venne data in sposa a don Vincenzo La Grua, barone di Carini.

Vincenzo La Grua Talamanca  - Signore di Carini
Nato: 11 novembre 1527
Morto: 22 marzo 1592
Figlio di Pietruccio La Grua Talamanca, barone di Carini e di Eleonora Manriquez
Marito di Laura Lanza
Padre di Cesare La Grua Talamanca, Signore di Carini

Laura Lanza dei conti di Mussomeli
Nata: 7 ottobre 1529
Morta: 4 dicembre 1563
Figlia di: Don Cesare Lanza, I conte di Mussomeli e  di Lucrezia Gaetani
Moglie di: Vincenzo La Grua Talamanca, Signore di Carini
Madre di: Cesare la Grua Talamanca, Signore di Carini
Sorella di: Giovanni Lanza
Sorellastra di: Margherita Lanza – Ottavio I Lanza Y Centelles, Principe di Trabia, II Conte di Mussomeli – Diana Lanza e Centelles dei Conti di Faro

I due si sposarono il 21 settembre/dicembre 1543 ed erano ancora in giovanissima età.
Vincenzo La Grua Talamanca aveva 16 anni mentre Laura Lanza era appena quattordicenne.
Era quindi la primogenita del barone di Trabia e del conte di Mussomeli, don Cesare Lanza, e di Lucrezia Gaetani.
Aveva una sorella Giovanna e diversi fratellastri e sorellastre. Tra i fratellastri Ottavio. primo principe da Trabia, da cui discesero gli attuali discendenti della famiglia, che fece ricostruire il Castello di Mussomeli ed il relativo borgo) e  tra le sorellastre  Margherita. Entrambi era nati dal matrimonio di Don Cesare Lancia con Castellana Centelles. Laura era nata nel castello di Trabia (alcune fonti riportarono la sua nascita a Palermo) ma visse la sua adolescenza nel palazzo  Lanza di Palermo.

Castello di Trabia


Palermo – Palazzo Lanza

La narrativa tradizionale lascò l’immagine, subito dopo il matrimonio, della giovane Laura lontana dal fasto, dalla vita movimentata e dalle feste di Palermo per cui nel castello di Carini era in preda alla noia.
Il marito era sempre impegnato nelle sue cacce al falcone e nei traffici commerciali e per questo motivo era sempre assente.
La donna riprese a frequentare Palermo e le feste che si svolgevano nel palazzi nobiliari. I due centri sono abbastanza vicini, circa 27 km e non era quindi difficile raggiungere la prestigiosa capitale.
Durante una di queste feste incontrò nel palazzo Vernagallo, , i due si conoscevano in realtà da tempo, il giovane Ludovico Vernagallo.


Palermo – Palazzo Vernagallo

Famiglia che si crede originaria da Pisa e trasferita in Sicilia nel sec. XIV e precisamente in Palermo con un Ranieri. Dette senatori e pretori e un Francesco Paolo, fu governatore della nobile Compagnia dei Bianchi di Palermo. Al tempo di Carlo V possedette per breve tempo la città di Caltanisetta e nel 1718 fu investita della baronia di Diesi, di Sparacia e di Dainosturi. Questa famiglia si ritiene estinta sin dal 1869 ed i suoi beni furono ereditati dalla famiglia d'Angelo. Francesco Paolo, risulta l'ultimo investito del titolo di barone di Diesi, il 12 agosto 1769. La famiglia è iscritta genericamente nell'Elenco Ufficiale Nobiliare Italiano del 1922 col titolo di barone di Diesi (mpr.), in persona dei discendenti da Francesco Paolo.
Nel “Blasone di Sicilia” del Mugnos è citato che la famiglia sia di origini pisane.
Un Rainero Vernagallo nobile pisano mal soffrendo la signoria de’ fiorentini se ne passò in Palermo, ove i suoi posteri tennero le cariche di senatore e pretore.
Possedette questa famiglia sotto Carlo V Caltanissetta sebbene per corta durata, ed è stata investita nel 1718 della baronia di Diesi e Sparacia. Arma: di rosso, con un leone di argento. Elmo e  corona di barone.

Il prescelto fu proprio don Vicenzo La Grua Talamanca, figlio del barone di Carini Pietro III e di Eleonora Manriquez.
La giovane fanciulla, allora quattordicenne, lasciò il palazzo di Palermo per trasferirsi nel castello di Carini dove visse per vent’anni e dove nacquero ben otto figli/e(?).
I Vernagallo erano imparentati con i La Grua e possedevano il feudo di Montelepre che era confinante con il feudo di Carini (nota n. 3).
Il fratello del padre di Ludovico Vernagallo,  anche lui con lo stesso nome e  ricco mercante, aveva sposato la zia materna di Vincenzo La Grua Talamanca con il quale entrò in società nella conduzione di un importante zuccherificio. Questo permetteva al giovane Ludovico Vernagallo di frequentare il castello di Carini fuori dagli sguardi indiscreti dell’ambiente palermitano tipicamente civettuolo dell’alta aristocrazia.

La parentela tra i Vernagallo e i La Grua Talamanca sarebbe nata grazie al matrimonio di
Elisabetta La Grua Talamanca (nata nel 1520 circa - ?)
Era figlia di Giovanni Vincenzo La Grua Talamanca (figlio di Pietro La Grua Talamanca, barone di Carini, Misilmeri e Vicari, e di Violante Bardi Mastrantonio) e di Ilaria (Eulalia) Aiutamicristo .
Don Giovanni Vincenzo si risposò con Elisabetta Bracco e Calvello da cui nacque Giovanna La Grua Talamanca.
Dal matrimonio con l’Aiutamicristo oltre ad Elisabetta erano nati/e: Pietruccio La Grua, barone di Carini ed un’altra Elisabetta La Grua Talamanca.
Con
Ludovico Vernagallo (nato nel 1520 circa - ?)
Figlio di Mariano Vernagallo e di ?
(dal matrimonio nacquero: Caterina Vernagallo : 1540 circa  - Vicenzo Vernagallo: 1545 circa –  Alvaro Vernagallo: 1550 circa)
Aveva dei fratelli/sorelle (?):
Alvaro Vernagallo:1510 circa – Ludovico Vernagallo: 1520 circa (forse il Vernagallo del nostro racconto?) – Giulia Vernagallo: 1530 circa.


Montelepre – Castello
Ludovico Vernagallo, in qualità di titolare del feudo di Montelepre (Nota n.3) confinante con quello di
Carini, aveva in questo modo la possibilità d’incontrare Laura Lanza durante le assenze del marito Vincenzo La Grua?

Sono passati circa quattro secoli e mezzo dal triste episodio e la tragedia sarebbe ancora viva.
Un omicidio legato alle rivelazioni di un frate che riferì al padre di Laura, Cesare Lanza, l’amore segreto della figlia per Ludovico Vernagallo.
Don Cesare, si trovava a Mussomeli, partì con dei bravi  e dopo una lunga cavalcata irruppe nel castello di Carini sorprendendo i due amanti.
(Nei pressi di Carini don Cesare Lanza s’incontrò con il genero Vicenzo La Grua Talamanca per proseguire insieme per il castello di Carini).


Mussomeli – Castello


Circa 115 km tra colline con una strada dai  continui dislivelli, tra zone impervie, ci vollero circa 25 ore considerando anche le brevi soste per raggiungere il luogo del delitto

Castello di Carini


Cesare Lanza giunse durante la notte nel castello di Carini con i suoi “bravi” e sorprese i due amanti.
Uccise con un pugnale la figlia Laura e fece uccidere Ludovico dai suoi “bravi”.
 La baronessa colpita al petto si toccò la ferita e dopo una breve fuga, ormai senza forze, s’appoggio al muro con la mano insanguinata lasciando la sua impronta (?).
Il canto popolare, in una delle sue strofe, ricordava la drammatica fine di Donna Laura:
Vurria 'na canzunedda rispittusa, chiancissi la culonna a la me casa;
la megghiu stidda chi rideva in celu, anima senza cappottu e senza velu; la megghiu stidda di li Serafini...povira Barunissa di Carini!»

Un delitto d’onore? Una padre che uccide la figlia adultera per punire con il sangue l’onore del suo casato, della sua famiglia?

Atti simili si verificarono in molti altri castelli della Sicilia e spesso avvolti da leggende che mostrarono sempre un anelito di realtà
Tutti questi eventi delittuosi sarebbero legati da aspetti comuni:
-        Salvare un presunto “onore” della casata:
-        Il tentativo di nascondere gli esecutori dell’evento delittuoso.
Nel blog dal titolo “Ecclissi di Luna” di Alexandra Borgia
  fu riportato un commento che lascia riflettere perché  proiettato nei nostri tempi…
La violenza, la morte, l'amore esistono dalla notte dei tempi, eppure mi sconforta accettare l'idea che storie come queste abbiano ritorsioni altrettanto violente nelle esistenze delle giovani donne di oggi. Quante che non erano contesse, baronesse, principesse devono aver fatto la stessa fine solo perché avevano osato abbandonarsi alla fiamma sincera dell'amore? Certo, lei aveva tradito lo sposo e, con lo sguardo critico ai secoli addietro, dove ci si uccideva come mosche, in nome di nessuno, mi rendo conto che la bella Laura aveva pochi mezzi per sfuggire alla sorte. Lei era prigioniera del padre, una pedina politica e sociale mossa e travolta dall'indignazione paterna.
Alla luce dei nuovi accadimenti, spero che l'anima della baronessa possa tornare a "casa sua", sfumata dolcemente dalle nuvole di un Dio che, certo, l'aveva perdonata, poiché fu vittima dell'amore e non dell'infedeltà. Matrimoni come quelli erano all'ordine della Chiesa. La donna non poteva replicare. Poteva solo morire, accettare la vita di convento, ma lei, essendo così giovane, aveva soltanto chinato il capo ad un ordine superiore.
Che sia stato il padre ad ucciderli entrambi, non ho dubbi...
Come si dice da me...quando una donna muore, la prima causa ebbene 
cercarla fra le mura domestiche.



Il delitto fu avvolto dal silenzio…….
Un cronista rilevò una data, dei semplici numeri messi in sequenza, che accompagnarono una semplice nota..
1563. Sabato 4 dicembre successe il Caso della Signora di Carini.
Nient’altro.. solo questa semplice frase.
Il cappellano annotò invece nel registro parrocchiale le morti dei due amanti anche lui senza aggiungere altro.. neanche un aggettivo che avrebbe potuto creare sospetti…
A di 4 Dicembre 1563. Fu morta la spettabile
Signora Donna Laura La Grua. Sepellosi a la matrj ecclesia…
Eodem. Fu morto Ludovico Vernagallo.
Questi sarebbero gli unici documenti relativi alla morte di Laura e Ludovico.
Molti scrittori e ricercatori cercarono di chiarire i lati oscuri della triste vicenda con laboriose e lunghe ricerche. Fu il ricercatore Salomone Marino che nel 1963 riuscì a trovare nell’Archivio di Stato di Palermo un documento che avrebbe impresso sulla vicenda una chiarificazione degli avvenimenti.
Don Cesare Lanza fu processato per l’assassinio della figlia e la
Sacra cattolica Real Maestà accolse la difesa del padre assassino
archiviando il caso
e nascondendo a tutti la realtà dei fatti per oltre quattro secoli.
La triste vicenda d’amore fu ricordata solo nel canto popolare.. canto  che esprimeva il vero concetto dell’Amore  con alte note di poesia e che prese il titolo di
La storia della Barunissa di Carini.

Il poeta che scrisse questi versi fu Antonino Veneziano?
Il veneziano fu imprigionato ad Algeri insieme ad un altro grande poeta, il Cervantes.

Antonino Veneziano
Poeta che compose in lingua siciliana
(Monreale, 7 gennaio 1543 – Palermo, 19 agosto 1593)
https://www.palermoviva.it/wordpress/wp-content/uploads/2021/04/Antonio-Veneziano.jpeg

Ma fu veramente un delitto d’onore?

 Dobbiamo considerare i tempi in cui si svolsero gli eventi. L’aspetto delle grandi famiglie aristocratiche era legato al denaro, al benessere economico considerato forse l’elemento di vita più importante.
Non si aveva timore per interessi economici di rinchiudere le figlie  nei conventi, anche con la forza, per privilegiare la discendenza maschile ed anche i matrimoni combinati erano una conseguenza della scarsa considerazione nei confronti della figura femminile costretta anche ad accettare come marito un uomo non amato.
Si dice come Ludovico Vernagallo fosse cugino di Vincenzo La Grua Talamanca e che la stessa Laura e Ludovico si frequentavano a Palermo nella via Alloro.
Lo storico Calogero Pinnavaia affermò come i due amanti non furono uccisi per un fantomatico “delitto d’onore” ma per interessi economici. Il denaro al centro di tutto da sempre anche nei più forti rapporti umani come fra padre e figlia.
Don Cesare Lanza doveva del denaro a Ludovico Vernagallo.. e
per estinguere il debito fece uccidere il suo creditore.
La figlia Laura fu uccisa perché la sua eliminazione, come adultera,
avrebbe permesso l’occultamento della verità, della vera ragione del delitto.
Ma c’era anche un altro motivo da parte di don Vincenzo La Grua Talamanca ad eliminare la moglie Laura…
Secondo la Lex Julia, avrebbe avuto diritto alla metà del patrimonio
dell’amante (Ludovico Vernagallo)
Anche il padre di Laura, don Cesare Lanza avrebbe avuto i suoi vantaggi nell’eliminare la figlia:
uccidendo la figlia, per motivi d’onore, avrebbe riavuto indietro la sua dote.
Se queste fossero le motivazioni sarebbe una terribile verità.
Donna Laura fu vittima, come tante donne, di un matrimonio mal combinato e anche la storia del suo tradimento potrebbe essere falsa dato che Ludovico Vernagallo era parente del marito.
La vita di Don Cesare Lanza e di Vincenzo La Grua Talamanca continuò normalmente come se nulla fosse accaduto.
Don Cesare Lanza aveva un grande rapporto di stima e di amicizia con il vicerè del tempo Gonzaga e quindi non sarebbe difficile intuire le coperture sul delitto mentre don Vincenzo, anche lui complice anche se nascosto dagli avvenimenti delittuosi, sposò il 4 maggio 1565  Ninfa Ruiz (a circa 17 mesi dalla morte della moglie), figlia di don Afonzo Ruiz de Alacòrn e successivamente la Baronessa donna Paola Sabia Spinola (1529 – 1605). Le due donne furono sposate a distanza di circa un anno l’una dall’altra.
La data con il matrimonio con donna Ninfa Ruiz non sarebbe certa, dato che morì fra i sei ed un anno dal matrimonio con don Vincenzo. Il matrimonio di don Vincenzo con donna Ninfa Rui, secondo un’altra fonte, si sarebbe svolto il 28 aprile 1564, solo quattro mesi dopo la tragedia. Subito dopo il matrimonio don Vincenzo avviò dei restauri rinnovando alcune stanze del castello e cancellando le tracce che potevano ricordargli la moglie Laura.
Durante questi lavori il barone ordinò lo spostamento della porta di ingresso della corte e, ad espressione del suo animo, vi fece porre sopra la iscrizione:
«ET NOVA SINT OMNIA»
E  TUTTO  SIA  RINNOVATO
che vi figura tuttora. Si nota però che la prima parte dell’iscrizione, che starebbe ad integrarla, e cioè
«RECEDANT VETERA»
SIA  CANCELLATO  IL PASSATO
sarebbe presente su un secondo portale marmoreo, sempre sul lato sud-ovest e si trova inspiegabilmente nella famosa stanza sopra lo spazio, ora vuoto, ove figurava la lastra con la rossa «manata».
Queste due  epigrafi furono probabilmente collocate quando l’edificio, sotto la direzione dell’architetto Matteo Carnalivari di Noto, cambiò la destinazione d’uso del castello da caserma a dimora signorile e cioè nella seconda metà del Quattrocento.
Un'altra tesi  indicherebbe invece in don Vincenzo l’autore della collocazione delle due epigrafi.
Interessante uno stretto corridoio che conduce in basso, incassato tra grosse mura, ed attraverso il quale fuggì la sventurata Laura, premendosi il cuore trafitto a trattenerne il sangue, finché, cadendo sfinita, poggiò sulla parete la mano insanguinata, lasciandovi la favolosa impronta.
 
L’unica cosa che non riuscì a cancellare fu l’impronta insanguinata della mano della povera Laura che nel cadere, trafitta dal pugnale  del padre, s’appoggiò con un atto di sofferenza al muro.
L’impronta era impressa su una lastra di marmo che era posta alla parete di una stanza, (specie di cisterna?) e che venne ricordataa da versi popolari che furono raccolti dal famoso Giuseppe Pitrè:
«Ma ceè lu sangu chi grida vinnitta
Russu a lu muru, e vinnitta nn'aspetta».

 Il castello fu privato di questa famosa impronta, che tanto interesse destava nei visitatori, con la rimozione della lastra che sembra sia stata trasportata a Parigi nella dimora degli attuali proprietari (?).
Dopo la tragedia, per nasconderne in parte il terribile omicidio, si sarebbe tentato di alterarne i fatti creandone un'altra versione (smentita da successivi accertamenti) ed a tal fine sarebbero state anche alterate talune carte di famiglia.

 

Il Duomo di Carini

Il barone Vincenzo La Grua Talamanca  (7° barone di Carini) fu definito dalla storia come un
Signore illuminato e pazzo omicida.
Aveva una personalità complessa e contraddittoria che ancora oggi rimase indecifrabile a causa delle molteplici identità che convivevano nel personaggio.
Irrequieto e gaudente, amante degli orpelli, della vita frivola e spensierata, mentre la baronia affondava nei debiti. Eppure, nonostante il disagio economico, trovò le risorse per costruire la sontuosa Villa del Belvedere con parco, ninfeo, casino e foresteria, cornice alle feste, alle cacce, alla sua piccola corte di raffinato signorotto rinascimentale. Artefice del primo rinnovamento architettonico del castello, della fondazione di chiese e di istituti monastici, del rilancio edilizio e di una serie di iniziative in favore delle attività produttive e commerciali della baronia, quale il vigoroso impulso dato alla canna da zucchero, principale fonte di benessere per la breve stagione in cui durò. Per questi motivi Vincenzo II passò alla storia come "signore illuminato". Tuttavia la sua immagine rimase macchiata dalla fosca vicenda che sempre lo avrebbe accompagnato come un'ombra implacabile: il tragico caso della baronessa di Carini (1563), uccisa dal padre con la complicità del marito, proprio lui, il barone Vincenzo.

Leggenda
Una leggenda narra che in occasione dell’anniversario del delitto, ogni 4 dicembre, apparirebbe su un muro l’impronta della mano insanguinata che fu lasciata dalla baronessa durante la sua terribile agonia. 

Le famiglie coinvolte avevano un’alta posizione sociale nell’aristocrazia palermitana e non solo.
Don Cesare Lanza era addirittura prefetto di Palermo e con la sua forte autorità mise a tacere subito, probabilmente anche con delle minacce, i cronisti del tempo. Per questo motivo si limitarono nei loro scritti a riportare solo la data e la notizia della morte.
Ma nonostante la riservatezza d’obbligo, la notizia si divulgò ed il “caso” della baronessa di Carini divenne di dominio pubblico.
Il viceré, appena venne a conoscenza dei delitti, immediatamente adottò per don Cesare Lanza ed il barone di Carini i provvedimenti previsti dalla legge; furono banditi ed i loro beni vennero sequestrati.
Don Cesare Lanza ancora una volta si rivolse a re Filippo II; spiegò i motivi che lo avevano portato assieme al genero a trucidare i due amanti ed avvalendosi delle norme, in quel tempo in vigore sulla flagranza dell’adulterio, chiese il perdono che fu accordato.
Liberato da ogni molestia, don Cesare Lanza riebbe i suoi beni. Ancora una volta la Giustizia lo assolse e come giustamente scrisse il Dentici,
“l’aristocrazia del tempo era al di sopra delle leggi e della giustizia”.
Anche il barone di Carini, marito di Laura, fu assolto con formula piena, e visse indebitato sino alla sua morte, dopo avere portato al Monte dei Pegni gli ultimi gioielli della sua famiglia.
 
Don Cesare Lanza ebbe quindi un’influenza, per le sue alte cariche, anche sui 
“giudici” del tempo che indagarono sulla vicenda.
La verità ufficiale si troverebbe  trascritta in una lettera-confessione che fu scritta dallo stesso padre di Laura, Don Cesare Lanza, al re di Spagna Filippo II.
Il vicerè dell’epoca Don Juan de la Cerda ebbe delle perplessità sulla vicenda legata al delitto d’onore ma a nulla valsero le sue dichiarazioni perché don Cesare fu assolto dalla legge vigente e l’anno successivo fu addirittura insignito del titolo di Conte di Mussomeli.
Ma cosa scrisse don Cesare nella fatidica lettera al re di Spagna Filippo II. Lettera che sarebbe conservata in un archivio di Stato a Madrid(?) e che sarebbe costituita da un breve memoriale per discolparsi del delitto della figlia Laura:

 Sacra Catholica Real Maestà,don Cesare Lanza, conte di Mussomeli, fa intendere a Vostra Maestà come essendo andato al castello di Carini a videre la baronessa di Carini, sua figlia, come era suo costume, trovò il barone di Carini, suo genero, molto alterato perchè avia trovato in mismo istante nella sua camera Ludovico Vernagallo suo innamorato con la detta baronessa, onde detto esponente mosso da iuxsto sdegno in compagnia di detto barone andorno e trovorno detti baronessa et suo amante nella ditta camera serrati insieme et cussì subito in quello stanti foro ambodoi ammazzati.
Don Cesare Lanza conte di Mussomeli

Dove fu sepolta Donna Laura Lanza?

Esistono diverse versioni sulla sua sepoltura:
- Duomo di Carini (“Chiesa Madri”);
- Cappella Lanza nella Chiesa di Santa Cota (San Mamiliano) a Palermo;
- Chiesa delle Anime Purganti del Purgatorio (Chiesa del Purgatorio) (“Chiesa Madri”) di Carini;
- Altra Chiesa di Carini
La prima citerebbe come luogo di sepoltura sotto l’altare della “Chiesa Madre” di Carini e cioè nella cripta della famiglia La Grua.
Il termine “Chiesa Madri” sviluppò un ampio dibattito tra gli studiosi portandoli a conclusioni diverse e molto contrastanti.
Nelle prime indagini per “Chiesa Madri” s’intendeva il Duomo di Carini. In origine era dedicata al SS. Sacramento ed oggi è intitolata a Maria SS. Assunta. Fu eretto alla fine del XV secolo incamerando la piccola chiesa del SS. Sacramento e di S. Sebastiano. Diventò parrocchia nel 1523.

Castello - Matrice (Duomo)



La seconda ipotesi indicava come luogo di sepoltura la chiesa di Santa Cita  (San Mamiliano) a Palermo ovvero nella cripta della famiglia Lanza.

Palermo – Chiesa di Santa Cita (Mamiliano)

Nel 2021 un gruppo di studiosi smentì la sepoltura della baronessa Laura nella cripta di Sam Mamiliano a Palermo. Arrivarono alla conclusione di come le spoglie di donna  Laura riposino invece nella “Chiesa Madre” di Carini dove fu uccisa.

Non si conosceva l’esistenza della cripta dei Lanza nella chiesa di Palermo. Fu scoperta casualmente nel 1997 durante dei lavori di manutenzione straordinaria nei sotterranei della chiesa  di santa Cita , oggi detta di San Mamiliano di Palermo.(Nota n.4)


Palermo - Cripta Lanza – Chiesa di Santa Cita (Mamiliano)


Rimossi i materiali di risulta, a causa del crollo di una parte del soffitto, fu ritrovata una magnifica Pietà di marmo quattrocentesca di Giorgio da Milano, con raffinate decorazioni e quattro tombe:
- in una era sepolto Blasco Lanza, il nonno di Laura;
- nell’altra la seconda moglie del padre, Castellana Centelles;
- nella terza probabilmente il padre-assassino, Cesare Lanza e il giglio Ottavo avuto dalla Centelles;
- sul quarto sarcofago, anonimo, giaceva la scultura di una giovane donna.



Il sarcofago, un’opera artistica molto pregevole, si troverebbe sotto il sepolcro del padre di  Cesare Lanza, Don Blasco Lanza.
Il sarcofago di Laura, di artista sconosciuto, avrebbe lo stemma della famiglia Lanza e anche la posa della giovane donna farebbe avanzare l’ipotesi che si trattasse proprio della giovane Laura che al momento della morte avrebbe avuto circa 35 anni.
Valerio Rosso  (Corleone, 1572 – 1602) (medico e filosofo) fu autore di tre manoscritti: “Varie cose notabili occorsi in Palermo ed in Sicilia” (1587 – 1601);”Descrizione di tutti i luoghi sacri della felice città di Palermo” ( 1590) in cui descrisse tutte le chiese di Palermo; “Diario Palermitano” (1596).
Secondo la narrazione del Rosso nel sarcofago, posto sotto il sarcofago di Blasco Lanza (in alcuni fonti indicato come luogo di sepoltura di Don Cesare Lanza) si troverebbero le spoglie della madre di Laura, Lucrezia Gaetani Lanza, prima moglie di don Cesare Lanza morta il 9 marzo 1546.
L’epigrafe del sarcofago sarebbe stata nascosta dalla pensante urna sepolcrale di Blasco Lanza che, appunto, la sovrasta.
Così riportò nei suoi diari dell’800 Francesco Maria Emanuele Gaetani (Palermo, 12 marzo 1720 – Palermo, 6 febbraio 1802), marchese di Villabianca e appartenente alla dinastia dei Gaetani.



La figura femminile è molto giovane e sarebbe  oggettivamente difficile pensare a luogo di sepoltura sia di Lucrezia Gaetani, che all’epoca della morte era quasi quarantenne, che della stessa Laura Lanza morta all’età di 37 anni. Forse un’urna preparata prima della loro morte? Sarebbe solo un ipotesi e per la verità poco attendibile.
 Si pensò, dunque, che si trattasse della sepoltura segreta della baronessa Laura, che, secondo la tradizione, sarebbe stata invece tumulata nella cripta dei La Grua sotto l’altare maggiore della Chiesa Madre di Carini.

Presunto sarcofago, con lo stemma, di Laura Lanza a San Mamiliano

In un documento ufficiale diffuso dal gruppo “Alla ricerca di Laura”, progetto socio-storico sostenuto dall’associazione Culturale Nord America “Carini I.O.D”, presieduta da Maurizio Randazzo, e dall’Associazione “Aria”, presieduta da Nicoletta Prestana, si avanzò l’ipotesi che la baronessa fosse sepolta, invece, a Carini, ma in un’altra chiesa, ovvero quella delle Anime Sante del Purgatorio, allora Chiesa Madre della cittadina.


Carini – Chiesa del Purgatorio

Il gruppo di ricerca studiò i registri di morte nei quali vennero annotati i nomi dei defunti di Carini e la collocazione delle loro sepolture.
“I registri – scrivono gli studiosi in un articolo pubblicato sul sito IlCarinese.it – ci dicono con chiarezza che ‘la signura Laura La Grua’ fu sepolta a Carini, presumibilmente insieme allo sfortunato amante:
‘Eodem fu mortu Ludovico Vernagalli”.
Eodem sta appunto per ‘lo stesso’ ossia, stesso giorno, stesso luogo che è, senza ombra di dubbio, la città di Carini. Un atto di morte va considerato a tutti gli effetti un documento ufficiale – scrivono gli studiosi – pertanto, il semplice fatto che sia stato redatto da mano umana e non frutto di ipotesi fantastiche, sfata il mito che vedrebbe la baronessa Laura La Grua sepolta nella chiesa di Santa Cita a Palermo,
cosa che in molti continuano ad affermare”.
“La verità su Laura La Grua, nulla toglie alla bellezza del complesso di Santa Cita, – scrivono i ricercatori – che resta comunque un gioiello di arte, cultura e storia leggendaria, meritevole d’essere visitato per il suo potere suggestivo. La sfortunata Laura La Grua, baronessa di Carini, visse, morì e fu sepolta a Carini, lo prova l’atto di morte custodito nei registri parrocchiali della Chiesa Madre”.
Una tesi avvalorata – aggiungono dal gruppo di ricerca – dal ritrovamento nel 2018 nella chiesa delle Anime Sante del Purgatorio, di una tomba, nella parte sinistra dell’altare maggiore, con i resti di uno scheletro, probabilmente di donna.

Un canto popolare di autore anonimo del secolo XVI, in una delle strofe, ricordava la drammatica morte di Laura Lanza: 
«Vurria ‘na canzunedda rispittusa, chiancissi la culonna a la me casa; la megghiu stidda chi rideva in celu, anima senza cappottu e senza velu; la megghiu stidda di li Serafini…
povira Barunissa di Carini!»
La tradizione locale citava invece come la baronessa sarebbe stata tumulata nella cripta dei La Grua sotto l’altare maggiore della chiesa madre carinese.
 Nel 2014, il grafologo del Tribunale di Palermo Carmelo Dublo analizzò gli antichi documenti disponibili, al fine di rinvenire nuovi elementi utili all’individuazione della reale tomba della baronessa, con il valido ausilio del Reparto investigazioni scientifiche dei carabinieri di Messina. L'attenzione si  concentrò sulla chiesa di Santa Cita a Palermo e sul famoso sarcofago della giovane donna posto nella cripta dei Lanza.  

Il Certificato di Morte di Donna Laura Lanza e di Ludovico Vernagallo

Atto di morte di Laura e Ludovico – Archivio Chiesa Madre Carin
A di 4 Dicembre 1563. Fu morta la spettabile
Signora Donna Laura La Grua. Sepellosi a la matrj ecclesia…
Eodem. Fu morto Ludovico Vernagallo.
https://www.ilvespro.it/wp-content/uploads/2018/12/Atto-di-morte-Laura.jpgi

 

Vari documenti sembrerebbero provare la sepoltura di Donna Laura Lanza nella Chiesa Madre di Carini:
-        l’atto di morte trascritto nel Registro dei morti;
-         le rendite per le messe a suffragio;
-         gli atti di alcuni notai (alcuni riportarono la dicitura che la “Signura di Carini morio di mala morti”);
-         probabilmente anche la descrizione della Chiesa Madre da parte di vescovi in visita pastorale, che riportano come nell’altare maggiore vi era la
cassa di legno coperta da un drappo di damasco con i resti della Signora di Carini”.
Ci sarebbe anche un aspetto artistico da non sottovalutare e cioè che la Chiesa Madre di Carini nel 1563 era l’attuale, anche se con la presenza di un cantiere di lavoro. Queste tesi sarebbe confermata dalla descrizione dei Vescovi in visita che entrarono nel dettaglio dei singoli altari presenti e come scrissero decine di notai che rilevarono la presenza di lavori in corso.
Secondo questi documenti Laura Lanza sarebbe stata quindi sepolta nella cripta della famiglia La Grua Talamanca rendendo ancora più enigmatica l’identificazione della sepoltura della donna.
Una cripta che fu realizzata per volontà testamentaria di Pietro II La Grua Talamanca e completata probabilmente poco prima della morte di Vincenzo II La Grua, avvenuta nel 1592.

I legati per la sepoltura di Pietro II La Grua e la Cappella della Beata

Come mai si persero le tracce sull’esistenza nel Duomo di questa cripta privata dei La Grua Talamanca?
L’area in cui si trovava la cripta fu individuata grazie ad un attento lavoro di ricerca.
Fu realizzata per volontà testamentaria di Pietro II che nel 1535 fece un lascito, nel suo testamento, di oltre 200 onze per la realizzazione della cripta.
Dispose anche un lascito di 100 onze per dei lavori di ampliamento della Chiesa Madre ed altre 100 onze per la realizzazione di un monumento marmoreo da collocarsi al suo interno.
La cappella privata doveva essere dedicata alla Beata Maria “dello Rito”. Era un chiaro riferimento alla Madonna di Loreto quanto alla Madonna con Bambino. Un icona venerata nel “rito” bizantino della moglie di Pietro, la baronessa Eleonora Tocco Manriquez discendente dagli imperatori di Costantinopoli.
La cappella-cripta si trovava sotto l’altare maggiore della Chiesa Madre ed aveva il suo ingresso con una scalinata chiusa da una doppia lastra in marmo che oggi si trova all’interno della Cappella del Castello La Grua Talamanca.
Al suo interno furono sepolti, oltre a Pietro II, anche il figlio Vincenzo II, il di lui figlio Pietro, Laura Lanza, Ninfa Ruiz, Vincenzo III e la moglie Vincenza, Vincenzo IV e la moglie Anna. Quando i Principi di Carini si trasferirono definitivamente in Francia, a metà del 1800, in occasione del rifacimento della pavimentazione della Chiesa Madre (che fino ad allora era costituito da mattoni di cotto realizzato agli inizi del 1700) la cripta venne chiusa e murata. Così scrisse l’arciprete di Carini ad una richiesta esplicita del Salomone Marino, alla ricerca della sepoltura di Laura Lanza.
Per confermare quanto riportarono i notai, i vescovi nelle loro visite pastorali e la nota dell’arciprete rivolta a Salomone Mariano, furono effettuate  indagini “tecnologiche” nell’altare maggiore della Chiesa Madre. Si eseguirono 3 prospezioni del sottosuolo utilizzando il georadar, in 3 distinti periodi e con 3 diversi strumenti: nel 1998, nel 2008 e nel 2015, che  evidenziarono come nel sottosuolo erano presenti delle difformità che potenzialmente potevano essere dei vuoti o dei riempimenti disomogenei. Alcune di queste difformità furono indagate con dei saggi che diedero sempre esito positivo, consentendo il ritrovamento di alcune cripte e colatoi, riscontrate in seguito anche dalle fonti archivistiche degli atti di notai del 1600 e del 1700, in particolare i notai Lo Vecchio (padre e figlio).
Rimaneva da indagare, sempre con dei saggi, l’area della cripta dei La Grua Talamanca, un impresa resa complicata dai lavori realizzati nel 1959 da parte di Mons. Bertolino, il quale fece rifare totalmente l’altare maggiore della Chiesa Madre, alzandolo di circa 50 cm con la realizzazione di 2 gradini e relative piattaforme, oltre alla successiva collocazione della mensa da celebrazione in corrispondenza di dove si trovava l’accesso alla scala che portava alla cripta-cappella.
Le fonti indicherebbero come Laura Lanza fu sepolta nella cripta-cappella dei La Grua Talamanca nella Chiesa Madre di Carini.




Il marito di Donna Laura, Vincenzo La Grua Talamanca, dispose che in suffragio della sua anima
venissero celebrate 5 messe la settimana, come per il figlio primogenito Pietro morto all’età di circa 15 anni 4 mesi prima che Laura venisse uccisa insieme a Ludovico Vernagallo.
https://www.ilvespro.it/2018/12/04/la-baronessa-carini-un-caso-ancora-attuale/


l documento che certifica la morte di Laura e Ludovico, 4 dicembre 1563
https://www.facebook.com/photo/?fbid=10216958513342202&set=g.1137873759683758

L’atto di battesimo di Laura Lanza, Baronessa di Carini, fu trovato grazie alla ricerche di Vito Badalamenti e dell’Associazione “Carini Iod”.

https://www.ilcarinese.it/ricerca-storica-ritrovato-latto-di-battesimo-di-laura-lanza-baronessa-di-carini/

Dall’atto fu confermata la nascita di Laura come figlia di Don Cesare Lanza e di Donna Lucrezia Gaetani.
Laura nacque a Palermo (altre fonti citerebbero la sua nascita nel castello Lanza di Trabia), capitale dell’aristocrazia siciliana, e fu battezzata il 14 ottobre 1529 come risulta dall’atto nella chiesa di S. Giacomo alla Marina. Una chiesa che per importanza era seconda dopo la Cattedrale.
La chiesa di San Giacomo alla Marina non è più esistente e, come riportano le attente ricerche dello storico Badalamenti, rimase un manoscritto che fu redatto dal Dott. Valerio Rosso nel 1590. In questo manoscritto fu riportata la descrizione degli interni della chiesa e si soffermò anche sull’importanza religiosa e storica della Chiesa in quegli anni.
Non sarebbe chiaro se il padre di Laura, Don Cesare Lanza, abbia partecipato al battesimo della figlia. Il motivo.?
Don Cesare era poco più che ventenne e fu chiamato a far parte dell’esercito imperiale di Carlo V in varie missioni militari. Una di queste missioni fu l’assedio di Vienna tra il 27 settembre ed il 14 ottobre del 1529.
Come riportò l’atto di battesimo, le fu dato il nome di Laura, in ossequio alla madre di Don Cesare, donna Anna Tornabene. Una notazione attenta perché il padre di Don Vincenzo, Blasco Lanza ebbe due mogli:
- Aloisia di Bartolomeo – dal matrimonio le figlie: Antonia e Giovanna;
- Laura Tornabene Paterno – dal matrimonio i figli/e: Manfredi, Cesare, Agata.
Donna Laura fu tenuta al battesimo da due padrini ed una madrina.
I padrini/e (riportati nel seguente ordine) erano:
- Mastrantonio, cioè Salvatore Bardi di Mastrantonio, barone di Aci, zio di Laura perché nel 1511 aveva sposato Antonia Lanza, figlia di Blasco Lanza e di Aloisa Bartolomeo. Antonia era quindi sorellastra di Don Vicenzo Lanza;
- Don Bernardo Riquisens, barone di Pantelleria, gran cancelliere del Regno, Capitano di Giustizia, Pretore di Palermo, Stratigoto di Messina, Governatore di Castellammare di Palermo e comandante dell’unità navale di Carlo V;
- Antonia Beccadelli di Bologna. Esponente di una nobilissima famiglia e i cui membri maschili occupavano importanti incarichi nella città di Palermo.
La data riportata nel documento si riferiva al battesimo di Donna Laura. Secondo i canoni del tempo la data di battesimo, se non diversamente specificato, coincideva con quella della nascita.
Laura oltre alla sorella Joanna (Giovanna), battezzata il 10 giugno 1531 nella chiesa di Sant’Antonio di Palermo, avrà altre quattro sorelle e tre fratelli che nacquero dalla seconda moglie del padre Don Cesare Lanza, Castellana Centelles.

Omicidio della Baronessa di Carini: riaperto il caso
Pubblicato da Scienze Forensi Magazine in Cold case · 13 Ottobre 2014


La vera storia della baronessa di Carini?
Uno studio: uccisa per soldi, amore e follia
La scoperta:
le nuove teorie di un grafologo che ha indagato con l’aiuto dei Ris.
Il giallo della tomba senza nome nella cripta dei Lanza.

Il perito Carmelo Dublo, famoso grafologo del Tribunale di Palermo (morto nel maggio 2017 nell’aula  bunker del tribunale di Palermo) confrontò i suoi dati con le nuove tecnologie di indagine del comandante del Ris di Messina, Sergio Schiavone.
Donna Laura amava Dante, passava ore a leggere accanto alla finestra del castello di Carini. Bellissima, portava con grazia i suoi trent’anni, in un periodo in cui una donna a cinquanta era già vecchia. Una triste storia quella di Donna Laura; otto figli ripudiati dal marito, uccisa dal padre quando fu trovata con l’amante Lodovico Vernagallo, nel letto coniugale.
Ma andò veramente così il delitto d’onore più narrato dai cantori popolari? Al di là della fiction e dei canzonieri, la storia di Laura Lanza intriga ancora oggi.
Il  grafologo Dublo rimase affascinato dal tragico avvenimento  seicentesco e cercò di risolvere l’intricato caso delittuoso.
Le indagini sembrerebbero portare alla cripta dei Lanza, a San Mamiliano, dove una tomba senza nome, ma con una giovane donna in marmo dormiente, potrebbe accogliere le spoglie della bella baronessa.
Carmelo Dublo confrontò i suoi dati con le nuove tecnologie di indagine del comandante del Ris di Messina, Sergio Schiavone. Tutto cominciò quattro anni fa quando criminologi e psicologi riaprirono il caso della nobile signora di Carini.
Non tornano i tempi, né le distanze, tutto è avvolto in un mistero di carte bollate, archivi di famiglia, lettere al re di Spagna.
Una sola cosa è certa: Laura Lanza venne assassinata il 4 dicembre 1563, nel castello di Carini.
Da chi fu l’ha uccisa?  Da  don Cesare Lanza, o il marito, il barone Vincenzo La Grua Talamanca o entrambi in comune accordo? E perché la fecero franca?
«Laura Lanza, Vincenzo La Grua Talamanca e Lodovico Vernagallo crescono insieme in via Alloro, non deve meravigliare il fatto che Lodovico frequenti casa La Grua – riannoda Carmelo Dublo – Laura è costretta dalla famiglia a sposare Vincenzo a 14 anni, avrà otto figli, ma dopo la sua morte, i sei rimasti saranno disconosciuti, anzi il nonno, Cesare Lanza, li “pagherà” al padre 300 tarì l’uno all’anno. Le femmine verranno poi fatte sposare e Lanza incamererà la dote. Il primogenito, Pietro, invece morirà a 13 anni, pochi mesi prima del “fattaccio”. E forse fu proprio la morte dell’erede a far piombare Vincenzo nella follia».
Tale da uccidere la moglie? Forse, fatto sta che le cronache vogliono che i due amanti siano stati chiusi in una stanza per otto ore dal padre di lei, in attesa del marito. Al suo arrivo, donna Laura sarebbe caduta per mano del padre (così la sua dote non doveva essere restituita) e Lodovico per mano del marito (quindi, per la lex Julia, non colpevole). Carte e atti raccontano poi che don Cesare Lanza sarebbe stato costretto alla latitanza, fino a quando non viene graziato dal re di Spagna… Insomma, sembra più un fattaccio di beni, scambi e follia, più che un delitto d’onore.
«Oggi avremmo scoperto tutto in fretta, tra telecamere, luminol e celle telefoniche – sorride Sergio Schiavone – anche se io sono ancora convinto che il “delitto perfetto” esiste». Eccome.
Fonte: http://www.lamescolanza.com/la-vera-storia-della-baronessa-di-carini-uno-studio-uccisa-per-soldi-amore-e-follia-310/

Baronessa di Carini, il mistero dell’omicidio svelato dopo 500 anni ?
La verità sul delitto dal sarcofago ritrovato a Palermo. Nel 1563 il padre si accusò: era a letto con l’amante, l’ho uccisa.
A vederla così, la giovane nobil donna con la testa reclinata sul cuscino, viene da pensare che davvero sia questa la tessera mancante del puzzle, il segreto nascosto per quasi 500 anni. Che la fanciulla scolpita nel marmo del sarcofago della chiesa di San Mamiliano – nel centro storico di Palermo – sia proprio lei, Laura Lanza, la baronessa di Carini uccisa nel 1563 in quello che è passato alla storia come il più clamoroso dei delitti d’onore. E che quindi questa sia la sua tomba, cercata per secoli e mai finora trovata, neanche dalla squadra di cercatori di fantasmi “Ghpa” che da tempo registra voci e apparizioni. A queste conclusioni è arrivato un gruppo di studiosi (criminologi, grafologi, psicologi), che ha indagato per 4 anni tra archivi e chiese da Carini a Madrid.
«L’ho sempre immaginato – dice il parroco, padre Giuseppe Bucaro -. Questa è la cripta della sua famiglia, qui sono seppelliti il nonno Blasco Lanza, la seconda moglie del padre Castellana Centelles, e probabilmente anche il padre Cesare Lanza che la uccise o meglio che si autoaccusò del delitto».
La storia è nota, rilanciata poi da due fortunati sceneggiati televisivi: quello del 1975 con Ugo Pagliai e Janet Agren e il remake del 2007 con Luca Argentero e Vittoria Puccini. Teatro del delitto è Carini, paese a 30 chilometri da Palermo dove il 4 dicembre 1563 – secondo la ricostruzione ufficiale – la baronessa Laura Lanza, sposata con Vincenzo La Grua, venne trovata a letto con l’amante Ludovico Vernagallo e assassinata dal padre nella stanza del castello. Un delitto d’onore confessato dall’assassino in una lettera al re di Spagna conservata in un archivio storico di Madrid..
«Ma non torna niente di questa ricostruzione – dice Carmelo Dublo, grafologo e perito del tribunale che guida la ricerca – perché per raggiungere Carini da Palermo ci volevano a cavallo almeno 6 ore e quindi Cesare Lanza non avrebbe potuto sorprendere nessuno. Inoltre, Vernagallo era un amico di famiglia con cui Laura giocava già da bambina, e la sua presenza al castello era consueta. L’impressione è che Lanza, uomo straordinario, giureconsulto, si sia sacrificato per coprire il vero autore del delitto».
Per la legge del tempo al padre dell’adultera era consentito uccidere la figlia e l’amante, se colti sul fatto. Al marito, invece, solo il diritto di uccidere il rivale, ma non la moglie. Primo obiettivo, trovare la tomba di lei. Le ricerche furono nel 2010, per mano degli investigatori dell’Icaa (International crime analysis association), nella chiesa madre di Carini, dove la tradizione vuole che esista la cripta della famiglia La Grua, poi chiusa e mai più individuata.
«Le ricerche – dice Dublo – sono arrivate a risultati poco chiari, certo è che secondo la tradizione il sarcofago della baronessa fu collocato a lungo nella cappella accanto all’altare e poi portato nella cripta. Ma noi ci siamo convinti che sia una falsa pista».
Una convinzione maturata alla luce delle “lettere di discolpa” inviate da Cesare Lanza al re di Spagna, ora custodite all’Archivio di Stato della Casa reale di Madrid. E ancora attraverso le carte custodite a Carini, «alcune certamente contraffatte». Poi l’indagine si è spostata nelle tante cappelle delle due famiglie, alla ricerca delle tombe. Tutto porta al sarcofago anonimo della fanciulla dormiente nella cripta della chiesa di San Mamiliano (cripta tornata alla luce alla fine degli Anni 90) posto proprio sotto a quello del nonno Blasco Lanza,
«segno di una profonda familiarità tra i due defunti».
Per avere la certezza, bisogna ora passare ai prelievi nella tomba, più volte profanata e depredata tra l’Ottocento e il Novecento.
«Sono sepolta in una tomba dove ci sono tanti cani, dov’è il malefico»,
avrebbe detto lo spirito della nobildonna ai ghostbuster.
Chi sarebbero questi cani malefici?

L'impronta di quella che si crede essere la mano della sfortunata
baronessa di Carini (Foto: tuttomisteri.it)

Se la sepoltura della baronessa di Carini si trovasse nelle cripte della Chiesa Madre ?
24 Luglio 2017 di Giuseppe Scavo

Dal diario di viaggio dei due compari alla scoperta storico-archeologica del territorio di Carini. Alla costante ricerca della sepoltura di Laura Lanza, baronessa di Carini.
di Ciccio Randazzo
Correva l'anno 1997, tempo in cui un nutrito numero di giovani e meno giovani carinesi, cultori delle bellezze naturali, architettoniche, artistiche e soprattutto archeologiche del loro territorio, si erano uniti sotto le insegne della nota Associazione archeologica nazionale denominata Archeoclub d'Italia. Le loro iniziative di ricerca e conoscenza, di salvaguardia e custodia, di valorizzazione e comunicazione sviluppate attraverso mostre, convegni mensili e riunioni settimanali venivano molto seguite ed apprezzate dalla comunità locale e non solo. Tanti gli obiettivi prefissati e raggiunti come la riscoperta delle Catacombe paleocristiane di Villagrazia di Carini; i saggi archeologici al Castello ed in contrada Santo Nicola; la mostra fotografica del territorio denominata 'Sui sentieri dei nostri avi"; il progetto 'Salva la Tela' ideato e realizzato per la salvaguardia di diverse opere pittoriche antiche della Chiesa del Carmelo di Carini; il recupero delle maioliche del campanile del Castello; il supporto alla proposta di acquisto di un terreno nella stessa contrada Santo Nicola. ora in fase di esplorazione archeologica come da progetto. Sono alcune delle tante iniziative che il club aveva attuato in quegli anni 1997/2000. Questa breve premessa, per ribadire il fermento culturale e sociale positivo di quei tempi, quando nessuno poteva immaginare come sarebbe finita nella precarietà la situazione sociale ed economica locale, nazionale e internazionale. E non solo, ma anche per fare memoria, dal momento che il "dimenticare' é diventata una moda voluta, utile soltanto a vanagloriare il 'nuovo che avanza. Sarebbe auspicabile, invece, che nascesse quel senso di continuità con le esperienze del passato, utile a migliorare il presente per proiettarsi nel futuro e poter diventare un tassello da aggiungere a quel mosaico ormai indispensabile per comporre la rinascita della nostra collettività.
 Tra le iniziative perseguite dal club c'era e rimane quella dell'approfondimento storico dell'amaru casu della Baronessa di Carini. Ci si interessava e ancora continua l'interesse alla storiografia e al riscontro scientifico che uno studio di ricerca materiale delle sepolture del casato La Grua, possa dare. Infatti, non è spiegabile che una nobile e importante dinastia come quella dei La Grua-Talamanca. signoria a Carini dal 1397 non abbia visibile un mausoleo dentro qualche chiesa tra le tante e belle che Carini possiede. Gli atti di morte descrivono seppellimenti del periodo rinascimentale effettuati in Chiesa Madre, ma in verità la Chiesa Madre attuale in quel periodo era ancora in costruzione. Da qui i dubbi nell'individuazione della Matrice del tempo, nel senso che la chiesa di Santo Vito e la chiesa di San Giuliano, dentro le mura, possono essere prese in debita considerazione in quanto sono state anch'esse matrici dei tempi precedenti. Senza per questo abbandonare le ricerche nell'attuale Chiesa Madre, come stanno continuando un ristretto numero di studiosi locali ex-soci di Archeoclub. Occorre precisare che. anche la chiesa del Carmine è interessata a questa ricerca, in quanto sappiamo che la cripta è stata utilizzata come mausoleo della famiglia La Grua, prevalentemente dal 1622, periodo del principato. La scoperta delle tombe La Grua, avrebbero una grande valenza storico-monumentale, per un ritorno turistico importante come queste realtà sanno promuovere. Pensate a quanta gente verrebbe a visitare la tomba della Baronessa. Tomba. purtroppo non ancora trovata come sappiamo e che gli studi. i documenti di seppellimento e il poemetto che è cronaca in rime, confermano essere a Carini e non altrove, come qualche notizia infondata vuole collocarla a Palermo.
 E proprio per questa necessità di trovare la sepoltura di Laura Lanza che nel 1998 alcuni soci di Archeoclub venendo a conoscenza che dal mese di aprile sarebbero cominciati i lavori per la sostituzione del vecchio pavimento della Chiesa Madre attuale, (opera voluta dall'indimenticabile arciprete Mons. Vincenzo Badalamenti), si adoperarono per saperne di più. Migliore occasione non poteva presentarsi dunque, affinché si potessero esplorare le cripte sottostanti della Matrice.
Si chiese permesso al sempre disponibile Arciprete ottenendolo sotto accordo tra le parti, che non si dovevano fermare i lavori.
“Mi raccomando!» ribadi il caro sacerdote con il suo fare deciso e personalissimo.
«Un facemu nca nni 'mpirugghiamu i pedi? La Chiesa si deve pavimentare senza perdere tempo!». e rimase sempre a nostro fianco spinto com'era dal suo essere appassionato conoscitore e scrittore delle storie della sua amata Carini. Purtroppo, in verità, non si potè fare uno studio approfondito in quanto tolti i mattoni vecchi niente era visibile come speravano, tranne alcune feritoie dove insisteva qualche lacerazione piccola del pavimento. Comunque, i soci di Archeoclub documentarono fotograficamente quello che fu possibile scoprendo una fossa comune, un colatoio e poco altro. Niente a vista di sarcofagi marmorei monumentali, come speravano. E pensare che in quel periodo a Carini. Antonello Gagini, il più noto scultore di Sicilia, possedeva proprietà e che comunque aveva lasciato segni della sua immensa arte. Un ritrovamento interessante e particolare, pero, si scopri nella cripta della Vergine, posta a sinistra dell'altare maggiore, nella quale due scheletri di dimensioni diverse, presumibilmente appartenenti ad un uomo e ad una donna, si mostrarono ai loro occhi increduli. Situazione che ricondusse il pensiero ad una variante della storia di Laura e Ludovico, che vuole i due amanti seppelliti assieme, pensiero supportato in parte dalle rime del poemetto che recita:
«...e si nun cridi a mia, bella figura. vattinni a la Matrici a la Biata, spinci la ciappa di la sipultura, ddà la trovi di vermi arrusicata...».
Per questo sarebbe auspicabile un approfondimento con uno studio del DNA degli scheletri per verificarne appartenenze ed età, magari chiedendo aiuto economico ad uno o più sponsor. Il non trovare le tombe La Grua fino ad oggi, rimane certamente una stranezza, ma resta lo stimolo per cercare ancora sia nelle cripte della Matrice attuale, sia altrove. E c'è chi ancora ricerca.




Sepoltura ed atto di morte di Laura La Grua, Baronessa di Carini
8 settembre 2020
Ricerca condotta da:
Ciccio Randazzo, Vito Badalamenti, Vincenzo Carcioppolo, Filomena Alimento, Cenzi Funaro, Gabriele Arezzo di Trafiletti, Susanna Sportaro, Maria Scalisi e Sandy Di Natale.
 
A di 4 di vij indizione 1563 fu morta la spettabili signura Laira La Grua
Sepellosi alla Matri Ecclesia
Eodem fu mortu Ludovico Vernagalli

Questo e il documento ufficiale, estrapolato dai registri di morte, nei quali venivano appunto annotati i nomi dei defunti di Carini e la collocazione delle loro sepolture, un vero tesoro di dettagli e informazioni che ci ha condotto su una strada mai esplorata prima. I registri ci dicono con chiarezza che 'la signura Laura La Grua* fu sepolta a Carini, presumibilmente insieme allo sfortunato amante:
'Eodem fu morto Ludovico Vernagalli'
L'Eodem sta appunto per 'lo stesso' ossia, stesso giorno, stesso luogo che e, senza ombra di dubbio, la città di Carini. Un atto di morte va considerato a tutti gli effetti un documento ufficiale, pertanto, il semplice fatto che sia stato redatto da mano umana e non frutto di ipotesi fantastiche, sfata il mito che vedrebbe la baronessa Laura La Grua sepolta nella chiesa di Santa Cita a Palermo, cosa che in molti continuano ad affermare. Chiarito il fatto che fu sepolta nella città di Carini, come gruppo di ricerca, ci siamo interrogati su dove potessero essere stati inumati i suoi resti. La prima cosa da stabilire era appunto quale fosse la “Matri Ecclesia” all'epoca dei fatti.
L'accurato esame degli atti di morte, dal 1535 al 1640 circa, e di alcune visite pastorali, in particolare quelle del 1573 e 1578 redatte ad opera del Vescovo Antonio Lombardo, ci ha infine condotto a una incontrovertibile verità: la Chiesa delle Anime Sante del Purgatorio, ex Santa Maria De Careni, presumibilmente ex San Giuliano, (l'analisi architettonica della chiesa é ancora in corso) fu la prima chiesa entro le mura della terra vecchia e Matri ecclesia col sub titolo di 'Santa Maria L'Assunzione Di Madre Donna' almeno fino al 1638.
Fu sostituita nella sua funzione di Matrice, dalla costruenda chiesa Maggiore che riporterà il sub titolo della prima Matti ecclesia, trasformandolo in 'Assunzione della Gloriosa e Sempre Vergine Maria” oggi, “Maria Santissima Assunta ". Lo studio di approfondimento è partito da Vito Badalamenti, coadiuvato dall'intero gruppo di ricerca, per avvalorare quella che inizialmente era un'ipotesi del responsabile della ricerca, Ciccio Randazzo e che ad oggi può invece definirsi tesi. Ulteriormente avvalorata da un proseguo di questa ricerca sempre più appassionante che vede Laura La Grua sepolta a Carini, nella chiesa delle Anime Sante del Purgatorio, la tesi si arricchisce di nuovi dettagli. Nel diario del 1590 di Valerio Rosso, 'filosofo et dottore in medicina'(rif pag.192/89) vengono riportati alcuni epitaffi del convento di Santa Cita. Tra questi, uno rapisce la nostra attenzione e ve lo mostriamo sinteticamente:

 Epitafia
lllorum qui sepulti suit in conventu Sancta Cita.
(di coloro che furono sepolti nel convento di Sancta Cita.).

Epitafium Lucrezia Lancea
Stemmata ea ci tara (o ea cifra) micans Lucrezia saxo Lancea unitum gloria rara iacet. 09 Marzo1546'
(Lucrezia, risplendente di quella cifra (O quella figura) con la sua lancia di pietra, giace unita in rara gloria. 09 marzo 1546')

L'iscrizione ci dice con chiarezza che Lucrezia Lanza Gaetani, è sepolta in Santa Cita.
Con l'aiuto di Filomena Alimento, dottoranda in Scienze e Tecniche Psicologiche, abbiamo tentato una libera traduzione, tenendo conto di alcuni tratti quasi illeggibili:
'Lucrezia giace al di sotto dello splendido sepolcro dei Lanza unita a loro nella rara gloria'
 Dunque nella tomba anonima, erroneamente attribuita a Laura La Grua, potrebbe in realtà giacere la madre di Laura. Se cosi tosse, dovè oggi l'epitaffio che lo proverebbe? Bene, ora provate a seguirci..Riguardo ai Lanza di Trabia, Dott. Valerio Rosso riportò solo gli epitaffi di Lucrezia Lanza Gaetani e Blasco Lanza, il cui sepolcro è posto oggi sulla tomba anonima. Il barone Blasco Lanza aveva commissionato al Gagini la cripta di famiglia nel 1524. Dopo il restauro di Santa Cita, tuttavia, della prima cripta dei Lanza si salvò ben poco, se si esclude il sepolcro di Blasco che oggi nasconde, presumibilmente, l’epitaffio della misteriosa donna scolpita sul simulacro.
A rafforzare questa ipotesi c'è un diario del diciassettesimo secolo (iscrizioni Sepolcrali"rif pag 115) di Manganante Onofrio, che annovera tra i defunti della nuova cripta Lanza: Cesare Lanza, Castellana Centelles, Blasco Lanza, Ottavio Lanza, la moglie, Donna Giovanna Ortega di Gioeni e il sepolcro anonimo. Ma non fa parola né di Laura La Grua, né Di Lucrezia Lanza Gaetani che però figura nel diario dì Valerio Rosso. Un ragionamento fatto sulla base di questi indizi potrebbe dunque svelare, in via ipotetica, l'anonimato della tomba attribuita alla Baronessa Laura La Grua. ll Valerio Rosso potrebbe aver visitato la vecchia cripta prima del 1574 e aver trovato solo gli epitaffi di Blasco e Lucrezia poiché i defunti, che il Manganante aveva annoverato nella nuova cripta, edificata nel 1614 per commissione di Ottavio Lanza, all'epoca dei fatti erano ancora in vita.
Mentre Laura La Grua, essendo morta e sepolta a Carini già da molti anni, non poteva in alcun modo trovarsi nella cripta dei Lanza, tenendo anche conto di una mentalità androcentrica che vedeva nel suo presunto tradimento, non un atto d'amore bensì il disonore di un illustre casato. Potremmo ipotizzare all'infinito. Resta il fatto che sia nel primo che nel secondo diario, il nome di Laura La Grua non viene mai menzionato nell'elenco dei defunti mentre quello della madre Lucrezia compare tra gli epitaffi in Santa Cita. Se non bastasse, in un terzo diario del diciottesimo secolo di Emanuele Francesco Maria Gaetani, ('Notizie di Sicilia" rif pag 162) il Marchese di Villabianca scrive testualmente: 'Sotto al suddetto cui altro tumulo con una figura di donna steva adi sopra a sua iscrizione che non si può leggere per esserci un gran sipolcro che l'occupa". Questa potrebbe essere la prova definitiva di quanto detto sopra. L'epitaffio di Lucrezia Lanza Gaetani, madre di Laura, é oggi coperto dal sepolcro di Blasco Lanza:
'Lucrezia giace al di sotto dello splendido sepolcro dei Lanza' .
Essendo un rampollo dei Gaetani il Marchese di Villabianca poteva presumibilmente essere a conoscenza della presenza di un suo avo nella cripta Lanza e di conseguenza avere l'interesse a riportare questa notizia. Le ipotesi devono essere supportate comunque da fatti oggettivi, che solo i documenti ufficiali possono attestare con certezza. Per questa ragione siamo ancora in fase di approfondimento riguardo alla simbologia araldica, che con l'ausilio di Aurelio Grasso, potrebbe svelare l'arcano definitivamente. Rintracciamo infatti nella parte destra dello stemma, inciso nell'anonimo sepolcro, la presenza di un leone e una palma, probabile implicazione di Lanza e Tagliavia.

Nella lettura araldica, la parte alta é riservata al suocero della defunta, in questo caso Lanza, in basso a destra, tradizionalmente è collocata invece la suocera, Tagliavia o Tornambene, comunque imparentati. Blasco Lanza e Laurea Tornambene potrebbero dunque essere i suoceri dell'anonima defunta, cosa che rafforzerebbe l'ipotesi che dentro al simulacro ci siano le spoglie di Lucrezia Lanza Gaetani. Fino a quando non avremo concluso il nostro percorso di approfondimento, non ci sentiamo di escludere altre strade, compresa quella che porta a Laurea Tornambene, moglie di Blasco Lanza. Chiunque può formulare ipotesi, fondendo l'empirico testabile all'immaginario suggestivo, non per questo ha il diritto di venderle come verità storiche. Storici, appassionati ricercatori e cantastorie, da sempre narrano di questo efferato delitto e dell'implicazione romantica che vide Donna Laura adultera pertanto indegna della sepoltura che le spettava per rango. Vilipesa anche nella morte, fu probabilmente gettata in una fossa comune, come si evince da alcuni versi:
E si nun mi cridi a la matrici vai, dintre lu zubbiu, dda, la truvirai: chine di vermi la gula sciacquata dunni luceva la ricca ciannaca: nido di surci la so' capiddera ca d'oro e perni cuncignata era: e rusicata li so' nichi manu, sfunnatu rocchiu gazzu, juculanu.
Deturpata da un precoce processo diagenetico e in fine traslata per pietà in chiesa Madre, come scrisse Giuseppe Maria Abbate, ('Carini Nella Storia Di Sicilia" rif pag 759) probabilmente, secondo le visite pastorali di Antonio Lombardo, ad opera della Compagnia di Gesù, viene nascosta agli occhi del mondo per eliminare l'onta della vergogna caduta inesorabilmente sui Lanza Di Trabia.


Donna Laura e il Vernagallo furono quindi probabilmente sepolti, senza funerale e nottempo, nella chiesa delle Anime Sante del Purgatorio.
Una chiesa che era distante circa 59 m dal castello e raggiungibile in appena 1 minuto.

UN DOCUMENTO INEDITO DI LUDOVICO VERNAGALLO ATTESTA LA SUA PRESENZA A MONTELEPRE:
È QUI CHE AVVENIVANO GLI INCONTRI SEGRETI CON
LA BARONESSA DI CARINI?
Lo storico e ricercatore Dott. Giovanni Filingeri, nelle sue ricerche sul castello di Montelepre, trovo nel 2019(?) nell’Archivio Storico di Palermo un documento, di tre pagine, che attesta la presenza di Ludovico Verganallo proprio a Montelepre.

Si tratta finora dell'unica testimonianza archivistica su uno dei principali protagonisti del tragico “caso” della Baronessa di Carini. Un testo interessante che potrebbe aprire nuovi scenari sul “caso”, così come l'abbiamo appreso.
È  un contratto di vendita di legname risalente al 1559 i cui contraenti sono il Vernagallo e altri quattro carbonai di Carini.
Dalla lettura del manoscritto emerge con chiarezza che il diritto del legnatico degli acquirenti si racchiudeva tra due “molette” e le contrade Passo Carrozza, Acqua Alvani, San Bartololomeo (oggi S. Bartolo) e il passo che si va alla turrj (Ventimiglia), tutte località nel territorio di Montelepre.
Ma non è l'unico riferimento a Montelepre contenuto nel testo: il contratto sarebbe stato scritto nelle sale della torre Ventimiglia il 20 gennaio del 1559, lasciando presumere che l'antica fortificazione (donjon edificato nel 1433-34) sia stata la residenza abituale del Vernagallo.
Tra le pagine risulta inserito un biglietto vergato e sottoscritto sempre dal Ludovico ed indirizzato al notaio, nel quale si fa riferimento ad una minuta notarile difforme dalle intenzioni contrattuali manifestate dal mandatario; ciò spinge l’avvenente giovane a redigere, con difficoltà, il citato atto, non senza imponendo al notaio che:
"…me rimanderete questa forma per non havere unaltra volta a rompermi la testa a metterla in carta che, per non esser offizio mio, ci timpestai un pezzo."
«Dal punto di vista storico si tratta di un documento di straordinaria importanza perché è l'unico testo, finora rinvenuto, vergato di proprio pugno da Ludovico Vernagallo e inviato al notaio per la sua registrazione” spiega Giovanni Filingeri, che ne ha mostrato una copia al pubblico, ieri sera, per la prima volta, nel corso dell'iniziativa culturale dedicata alla Torre Ventimiglia, organizzata dall'associazione “BC Sicilia”, con il patrocinio del Comune di Montelepre.
"La lettura dell’atto - ha proseguito Filingeri - è la conferma che Ludovico Vernagallo, figlio di Alvaro, ha vissuto a Montelepre, un elemento di cui finora non si era trovata alcuna traccia, e che collaborava col padre Alvaro nella gestione delle risorse economiche del feudo di Munchilebi."
"Dallo studio del documento - conclude lo storico - potrebbero emergere altri particolari interessanti con il ricorso alla grafologia, la tecnica che consente di dedurre presuntivamente alcune caratteristiche psicologiche di un individuo attraverso l’analisi della sua grafia; anche se è un campo che richiede molta cautela, resta un tentativo fantasioso, di certo affascinante, per delineare alcuni tratti distintivi della personalità di Ludovico Vernagallo, uno dei protagonisti dell’efferato caso, di cui si conosce bene poco."
Il nuovo documento apre dunque la strada ad una altra ipotesi del tutto nuova fino ad adesso: ovvero che Ludovico e Laura Lanza per coltivare la loro relazione adultera potrebbero essersi incontrati più volte a Montelepre, nei saloni della torre dislocata a tre miglia da Belvedere di Carini, residenza estiva del casato La Grua.
La ricerca ancora continua e ci aspettiamo nuovi sviluppi su uno dei casi più noti di “femminicidio” avvenuto nel 1563, che conserva tutt’oggi la sua drammatica attualità. 






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The etc.

Io Lodpvico Vcrnagallo o/ venduta ad simonj grasscllinj, grigorj gincmi, ct vincenso de patti, joanni lixandrillo quilla lignamj chi est in quilli duj moletti de terra chi sonno in menzo delli infrascripti seminati ecceptuati per li albori de li olivi, li imiti, li ogliastri, li carobbi, li mendoli e Ij pirayni chi ince seranno da insitarsi lontano trenta palmi l'uno da l'altro, et quilli troffi di ogliastri, charobbi, pirayenj ct mendolj chi saranno più folti de li supradetti trenta palmi digiano xiparli subta ct supra in modo che non gettano più vid[elicet]: in mcnzo lo siminato allo piano del margio calando lavinaro lavinaro undi est la calcara et arrivando allo siminato delo pezzo della carroza rt achianando alla trista trista alo siminato de Jacobo Bivilaqua caronisi undi est lo lino supra dillo n.ro lino  tirando suso ali olivi gaitanj ct nexcndo poi alo taglio dclo siminato di Stefano Guastanclia giungendo allo passo chi va allaqua de li alvanj et tira alo taglio de li siminati ca sonno sobto san Bartolomeo chi siminamo nuj de la partj de subta verso ditti moletti ct nexcndo alli olivi chiamati li inclasto et tirando lo taglio taglio de lo supra nominato siminato dello chiamo dello margio fina alo passo che si va alla turrj et incc lo fraxino dummodo chi trasendo qualchi punta di siminato intra ditti duj moletn infrascripti loco collo patto ince ti abiano ad farj lignamj pirchi non si intendi in ditta vcnditione ct cxcepto quilli terri forti tantum chi sonno in le supraditti  moletti ct quisto per lo prezio di unzi quatto in dinari ct quattro carichi de carboni da pagarmeli omne misi una paga intendendo primo in quilli misi atti ad farj disto scrvizio et quisto in lo modo infrascripto vid[e licet]: di li supra ditti accataturi si obbgano in solidum ad nettarmi tutta quella terra che si contenj in li sopra notati moletti de ognj natura de lignarni li erbi blanchi croveeri camarronj et simili troffi rovettj ct altra frascamj simili subta et supra in modo che non segnano più chi se limano liberamente operarj da arato ditti torri senza impedimento nixono ecceptuarj sempri li albori di li olivi li insiti li ogliastri da insitarsi ad trenta palmi lontano lun dall'altro li charobbi mcndolj et piraycnj li quali supra nominati arbori tanto domestici quanto da domesticarsi si obligano ditti accaptaturi accettarli dc supra smargiarli ad tomo ad torno ci struponigarli dc supta in modo chi non nochiano allarvoro, et per incherlj poi della sua tetra dc quisto intra termino di quatordici misi da contarsi da lo primo de febraro proximo da veniri innanzi da venivi ad

lo primo de febraro prossimo da veniri innanzi da veniri at finiri per tutto marzo dello anno 4 ind[izione] ct non havendo spedito in ditto tempo ditto servizio come si obligano ditti accaptaturi zoc venditori poza liberamenti senza altra licentia metteri hoc ad danno et interesse loro per farmi spediri dietto servizio et sonno obligati ct pozali stringeri in beni et in persona/ Item che tutti quilli rovctti frascami ct rimundatini chi loro non corrranno operari siano tenuti abrugiarli in parti chi non nc fazano danno et facendo me danno siano obligati cum danno et interessi in li beni et indi li personi loro/ item chi li fossi dello carobnj chi ferrano lagiano ad fari ad parti chi non fazano danno ct facendo me danni  siano obligati ut sopra et si declara per cos de supra si è detto chi siano obligati xipari omne natura di lignamj rovetti frascami etc. ecceptuati sempre li albori di li olivi ect. subta ct supra in modo chi non vegnano più di quisto non vegnano più seu non tornano ad naxeri più non se intenda per li rovetti dunmmodo chi ipsi accattatori poi chi hareranno tagliati ditti rovetti cu la runca li smargiano scu xipano radicati: cum lo czapuni et quisto se declara per chi loro dicino chi non obstanti, chi se xipano cu lo czapuni sempri torneranno ad gettarj et in quisto se obligano ct promettino in solidum come è di supra/ ltem processi de patto chi habiano de incomenzarsi lo servizio dundi piacera ad me in ditti dui mioletti, pero ct sempre chi gira lo olivito caricato ad tempo chi casca la oliva nullo patto pozano fari servizio ad paru chi me fazano danno ma se remetti in arbitrio mio/ Il loco da disignarsi lo servizio chi hanno da fari et contravenendo in questo siano obligati ad tutti danni et interesse e ut supra permettendo ce farce vera et bona ditta lignamj; ct defendercela da omni calunnianti persona. Egregio not. Vincentio Lo Vecchio perchee ho venduto come di sopra havete visto la prenominata legnami ali sopradicti con li patti e condizioni sopradetti pertanto mando a Gioffre Spina che contratti c prometti de rato per me e si bisognerà ratificare passerò un giorno per loco e ratificherò, voi vorrete stipularui per me e publicare e me ni farrette levar subito la copia e mandarmela con detto Gioffre che lui paghera tutto e Dio di mal mi guardi. Da la torre a di XX di gennaio nel 59.

Me rimanderete questa forma per non havcre unaltra volta a rompermi la testa a metterla in carta che, per non esser offizio mio, ci tempestai un pezzo, 1559
Ad. Lodovico Vernagalli

La “Baronessa di Carini” nel Teatro e nel Cinema

La triste storia della Baronessa di Carini ebbe molto risalto tanto che ispirò molti scrittori con poemetti e scritti storici.  Il medico e folclorista palermitano Salvatore Salomone Marino (1847 – 1916) cercò con i suoi scritti di togliere questa bellissima figura femminile dal mondo della leggenda.
Una storia siciliana del Cinquecento ..
Anche se era patente… che si trattava di un falso ottocentesco.
 Giuseppe Mulè (Termini Imerese – Pa, 28 giugno 1885 – Roma, 10 settembre 1951), compositore e direttore d’orchestra, scrisse la tragedia di un atto (Nota n. 5)
Baronessa di Carini
L’opera fu rappresentata al Teatro Massimo Vittorio Emanuele di Palermo il 16 aprile 1912.

Giuseppe Mulè


La storia fu poi ripresa per la televisione nel 1975 nello sceneggiato Rai
L’amaro caso della Baronessa di Carini
Diretto da Daniele D’Anza ed interpretato da Ugo Pagliai e Janet Agren




https://www.youtube.com/watch?v=KYGGYshJWDM


https://www.youtube.com/watch?v=KYGGYshJWDM


Nel 2007 fu eseguita una nuova serie televisiva che venne tramessa da Rai 1:
 La Baronessa di Carini
Con la regia di Umberto Marino e con gli attori:
Vittoria Puccini e Luca Argentero nelle parti dei protagonisti.

https://www.raiplay.it/video/2016/11/La-Baronessa-di-Carini-E1-1f4ce590-bd1f-4b75-90a4-b89683db38ef.html




CACCIATORI DI FANTASMI OFFICIAL GROUP - La Baronessa di Carini
Un castello a Carini, in Sicilia, dove si aggira ancora la figura di una donna infelice che vaga tra nel dolore di un antico delitto. Storia breve sulla morte di Laura Lanza e dell'impronta della sua mano insanguinata, che il 4 dicembre di ogni anno affiora in modo ben visibile...


Il Castello – Architettura

Le mura mediale sono databili all’XI – XII secolo. Degli elementi arabo-normani  sono evidenti nella seconda porta del castello dove è presente un arco a sesto acuto.
In alto si trova lo stemma della famiglia Abbate. I portali sono sormontati da alcuni scudi che rappresentano la casa dei La Grua con la raffigurazione di una gru.
L’attuale aspetto fu quello datogli nel Cinquecento dalla famiglia La Grua Talamanca, signori della città dal 1397, ma altri ritocchi e cambiamenti, gli ultimi, furono fatti ancora nel Settecento
Gli altri stemmi evidenziano tre zolle di terra,  stemma dei Chiaramonte, mentre nel piano superiore si trova lo stemma dei Lanza-La Grua con la presenza di due leoni rampanti.
 
Piano terreno
Entrando nel piano terreno vi è una stanza con volta a crociera che originariamente era un muro esterno. Un altro vano, privo del pavimento, mostra le fondazioni di strutture precedenti. Un grande salone è diviso da due arcate a sesto acuto con colonna centrale.
Nel lato est del castello si possono vedere: in un locale un lavatoio in pietra di Billiemi; una cappella affrescata a trompe-l'œil, una statua in marmo raffigurante la Madonna di Trapani. 
 
La cappella

La cappella gentilizia

Nella cappella si ammira un artistico tabernacolo ligneo del primo decennio del Seicento con colonnine corinzie che scandiscono prospettivamente lo spazio. Un matroneo in legno permetteva la vista dal piano superiore.
Il matroneo o tribuna era un balcone o un loggato posto all’interno dell’edificio e destinato ad accogliere le donne che assistevano alla funzione religiosa.  Matroneo deriva infatti da “matrona”.
L’androne interno ha sulla sinistra una scala quattrocentesca che conduce al Salone delle Feste e alla stanza dell’omicidio.

Piano superiore
Al piano superiore, all'ingresso di quella che era l'ala quattrocentesca del castello, troviamo un portale marmoreo dove, tra due fenici rinascenti dalle fiamme, è scritto 
Et nova sint omnia (E tutto sia rinnovato),
che è la continuazione di un'altra dicitura presente su un secondo portale marmoreo sempre nel lato sud-ovest dove si legge 
Recedant Vetera (Sia cancellato il passato),
probabilmente collocate quando l'edificio, sotto la direzione dell'architetto netino Matteo Carnalivari, cambiò la sua destinazione d'uso trasformandosi da caserma a dimora signorile (seconda metà del Quattrocento).

Il soffitto ligneo del salone delle feste

Salone delle feste
Dalla porta accanto si accede al salone delle feste, caratterizzato da un soffitto ligneo cassettonato con elementi stalattitici tutti decorati con stemmi nobiliari, salmi dedicati alla Madonna e didascalie allegoriche, tra le quali quella sull'asse centrale: 
In medio consistit virtus
(Nel bel mezzo sta la virtù)
e quelle sulle mensole laterali: 
Et in estremis labora.
Il soffitto ligneo fu realizzato in concomitanza con i lavori di riammodernamento fatti quando i La Grua Talamanca si imparentarono con la famiglia Ajutamicristo, un esempio simile si conserva infatti presso il palazzo palermitano della stessa casata, capolavoro dell'architettura gotico-catalana in Sicilia. 
Dalla porta laterale sinistra della sala si entra nella stanza cara alla baronessa di Carini, dove, si narra, avvenissero i suoi presunti incontri con Ludovico Vernagallo.
Dalla porta laterale sinistra della sala si entra nella stanza cara alla baronessa di Carini, dove, si narra, avvenissero i suoi presunti incontri con Ludovico Vernagallo.
Sui muri della quale non c’è traccia dell’impronta della sua mano insanguinata, come mostrava invece lo sceneggiato della RAI (e che tutti i turisti cercano, avidamente curiosi del particolare macabro). Eppure una manina scolpita sta sul coronamento di una delle torri, visibile solo da occhi attenti, dalle terrazze, non si sa se firma dell’architetto che ristrutturò la fortezza o se invece omaggio del medesimo a Donna Laura. 
 
Le altre stanze
Interessanti sono le stanze affrescate, come quella in cui si trova la pittura murale ritraente Penelope ed Ulisse. Una scaletta conduce alle cucine. Un vano, infine, merita attenzione perché si caratterizza per le vele e i pennacchi terminanti in pietra di Billiemi di stile gotico-catalano.
Riguardo alle varie epigrafi presenti sugli ingressi, Gioacchino Lanza affermo come essi vadano messi in relazione ad una rinascenza culturale, sociale e artistica, precedente all’assassinio.
Vincenzo Badalamenti appoggiò invece la tesi più suggestiva secondo la quale il barone avrebbe rinnovato tutto perché non vi fosse più nulla che gli ricordasse la moglie fedifraga. Il restauro però fu compiuto nel 1562, come inciso nello stemma marmoreo dei La Grua e l’atto di morte della sfortunata donna Laura fu del 4 dicembre 1563. Dalla stanza fatale si accede ai bastioni e alle torri, da cui si può ammirare un bel panorama.



Alcuni delitti “d’onore” del passato

Le donne del passato, sia di rango e non, erano costrette ad accettare matrimoni combinati dai padri, fratello o tutori per motivi economici,  accrescere il loro potere politico e sociale.ma c’era anche un altro aspetto nei matrimoni combinati cioè
Quello di migliorare la discendenza
Una discendenza degenerata a causa di frequenti matrimoni consanguinei per non disperdere il patrimonio, le ricchezze.
Una discendenza degenerata a causa di frequenti matrimoni consanguinei per non disperdere il patrimonio, le ricchezze.
Nel “Gattopardo” il principe Fabrizio di Salina assunse un atteggiamento decisamente critico nei confronti di certe abitudini o consuetudini della nobiltà.
Laura Lanza non era probabilmente molto contenta del suo matrimonio, ancora quattordicenne. Aveva amici sia nella famiglia La Grua c  con i Vernagallo e con Ludovico Vernagallo aveva sempre avuto un rapporto specile. Un rapporto che venne bruscamente interrotto a causa del matrimonio con Vincenzo (II) La Grua Talamanca.
Tra Laura e Ludovico c’erano forse state delle tenerezze e forse anche promesse di matrimonio. Non sapremo mai dell’esistenza di questi aspetti nelle relazioni tra i due giovani però è anche vero che l’amore, quello vero, non conosce ostacoli.si narra come Ludovico rivolgesse alla sua amata delle serenate e degli incontri tra i due nelle sale dell’alta nobiltà in occasione di riunione festose.
Erano veramente innamorati l’uno dell’altra?
La ballata siciliana cantava:
na catinedda li curuzzi strinci, battinu tutti dui supra ’na mota, e la felicità chi li dipinci attornu, attornu d’oru e di rosa; ma l’oru fa l’invidia di centu, la rosa è bedda e frisca pi un momentu.
Una piccola catena stringe (unisce) i piccoli cuori (dei giovani),
battono tutti e due sopra una nota, e la felicità che li dipinge attorno (la felicità li circonda),
d’oro e di rosa; ma l’oro fa l’invidia di cento (persone),
la rosa è bella e fresca per un momento (perché poi appassisce).
L’invidia è una brutta malattia e può causare guerre, tragedie.
Fu infatti, come racconta la ballata, un monaco che rilevò al barone don Vincenzo, appena tornato dalla caccia, la relazione amorosa tra la moglie e Ludovico. Il barone pensò subito al delitto d’onore.
Lu monacheddu nisceva e ridia, e lu baruni susu sdillinia.
Il piccolo monaco (dopo aver rilevato la relazione) usciva (dalla sala) e rideva,
e il barone (comincio) su a farneticare.
La situazione si doveva risolvere ed era quindi necessaria una riunione di famiglia.
Don Vincenzo andò dal suocero don Cesare Lanza ed entrambi si misero in camino per Carini con al seguito dei bravi (anche se Don Cesare, secondo alcune fonti, si sarebbe trovato a Mussomeli).
I due amanti furono sorpresi in un atto d’amore?
Non lo sapremo mai. Fu Don Cesare ad uccidere la figlia Laura. Nessuno accorse alle grida delle povera donna.

Troppi interrogativi,,, anche la stessa lettera di Don Cesare al re di Spagna Filippo II per spiegare il movente della terribile azione sembra voler nascondere altre motivazioni.
Don Cesare era pretore di Palermo ed aveva altre cariche importanti nella citta, allora una delle più grandi ed importanti d’Europa.. doveva essere protetto e lo stesso Don Cesare Lanza sapeva come il re di Spagna l’avrebbe graziato accettando le sue motivazioni.
Il caso fu chiuso….. per la tranquillità delle nobile famiglie coinvolte.
Il delitto d’onore era molto frequente in Sicilia, sempre nell’ambiente della nobiltà, sin dalla seconda metà del Quattrocento per giungere all’ultimo delitto d’onore, sempre in Sicilia, nel 1964 ( “la relazione tra il professore universitario e Mariatena” – Nota N. 10).
Nel
Quattrocento la sfortunata Donna Aldonza Santapau, dei marchesi di Licodia Eubea, fu calunniata a torto dai cognati invidiosi come “infedelissima”.
Il marito Antonio Pietro Barresi, signore di Militello (in Val di Catania) uomo molto violento ed esperto nell’arte militare, uccise la moglie ed il presunto amante con azioni terribili. Un uomo violento malgrado la sua fama di amante dell’arte. Furono i fratelli di don Antonio, per invidia e per vendicare dei torti subiti per non avere avuto delle concessioni di denaro da parte di Donna Aldonza, gli autori della tragedia.
Il nome del presunto amante era Francesco Caruso ed era soprannominato il “Bellopiede” per la sua bravura nel ballo.
Don Antonio legò il corpo del Caruso alla coda del cavallo e lo trascinò per le vie di Militello passando anche davanti alla casa della povera madre dell’ucciso, costringendola a ridere…… scene di follia…
Dopo questi tragici eventi famoso fu il caso che colpì il Regno di Napoli, sempre nell’alta aristocrazia.
Il 16 ottobre 1590 fu uccisa la bellissima Donna Maria D’Avalos, una delle donne più celebri e conteggiate nell’Europa del tempo. Fu uccisa dal marito (che era anche  suo primo cugino) e dai suoi sgherri.


Maria D’Avalos era figlia di Carlo d’Avalos, principe di Montesarchio, una delle più nobili famiglie napoletane  e di Sveva Gesulado.
A tredici anni sposò il principe Federico Carafa e dal matrimonio nacquero due figli/e:
Ferdinando che morì in età infantile e Beatrice che morì all’età di dodici anni.
Rimase quindi vedova a 19 anni  (1581) e sposò in seconde nozze il figlio maggiore di una nobile ed illustre famiglia siciliana, Alfonso Gioieni.
I due si sposarono nel 1583 ma il marito morì appena due anni dopo, nel 1583.
Maria si ritirò, dopo la morte del secondo marito, nell’isola di Ischia dove rimase fino a quando non trovò un nuovo corteggiatore da sposare.
 Donna Maria d’Avalos sposò il principe Carlo Gesualdo di Venosa, il 28 aprile 1586.
Era più giovane di lei di quattro anni ed era anche suo cugino di primo grado. La madre di Maria era sorella di Fabrizio Gesualdo, padre di Carlo.
Una relazione parentale molto stretta e per questo motivo era necessario una dispensa papale di papa Sisto V.
Donna Maria all’età di ventiquattro anni era la donna più famosa di Napoli per la sua straordinaria bellezza e per essere al centro di continui corteggiamenti da parte dei nobili più influenti delle varie corti europee.
Maria era adatta per il principe di Venosa perchè
, "avendo avuto due mariti in precedenza, aveva dato sufficienti segni di fertilità"
Il poeta Torquato Tasso era strettamente imparentato con la famiglia d’Avalos e quindi ebbe la possibilità di conoscere personalmente la donna.
Il poeta celebrò il matrimonio tra Maria e Carlo con un sonetto che terminava con i seguenti versi:
«Poi la vostra cintura con maggior luce
Fece il valore e la virtù feconda
E cede a bella donna invitto duce.»

Il principe di Venosa Carlo Gesualdo sposa Maria d'Avalos
1902
stampa tratta da "histoire de dona Maria d'Avalos et du duc d'Andria", de Anatole France
https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Maria_d%27Avalos_e_Carlo_Gesualdo.png

Dal matrimonio nacque, nel 1587 o 1588, un figlio di nome Emanuele.
Alloggiavano a palazzo Sansevero, di fronte alla Chiesa di San Domenico Maggiore.

Napoli – Pazzo San Severo


La coppia visse felice nei primi due/tre anni del matrimonio con una vita mondana molto intensa Quegli anni furono il limite in cui Maria riuscì a supportare quell’unione e coincise con i primi anni di Emanuele.
Il loro matrimonio non fu legato ad un forte sentimento d’amore ma ad un legame creato per impedire che il patrimonio familiare finisse nelle grinfie del papato.
A prescindere dagli aspetti economici, la coppia non aveva nulla in comune.
 
Negli anni a seguire sembra che il marito Carlo abbia addirittura iniziato ad insultare e a picchiare la moglie.
Questi aspetti erano indizi di un rapporto della coppia molto difficile. Il marito cominciò ad avere dei sospetti sulla lealtà della moglie.
Subito dopo la nascita di Emanuele, si narra come Maria  abbia avuto una relazione adulterina con il giovane duca d’Andria, Fabrizio Carafa, appartenente alla famiglia dei Carafa.
Carlo viveva per la musica e  trascurava la moglie. Era un madrigalista di grande talento. Un compositore che lasciò un notevole segno nella storia della musica polifonica. Maria era sempre più infelice finché, durante una festa danzante, conobbe Fabrizio Carafa, duca D’Andria, conosciuto con l’appellativo di Arcangelo per la sua grande bellezza. Sposato anch’egli con la nobildonna Maria Carafa, padre di quattro figli.
I due si innamorarono e divennero amanti, sempre più imprudenti, nonostante ricorressero a ingegnosi stratagemmi per non farsi scoprire.
 
Carlo venne a sapere del tradimento della moglie grazie alla rivelazione di uno dei suoi zii.
La bellezza di Maria, intanto, accendeva numerose passioni, tra cui Giulio Gesualdo, uno zio di Carlo, che desiderava quella meravigliosa creatura ricevendo sempre decisi rifiuti. Quando Giulio scoprì la relazione tra Maria e Fabrizio, ne parlò con il nipote. Questi, allora, decise di creare un’imboscata alla moglie. Un giorno, con la scusa di una battuta di caccia, Carlo disse alla moglie che non sarebbe rientrato a casa. Maria fu insospettita dal comportamento del marito, ma il desiderio prevalse sulla prudenza. Diede ordine a una cameriera di vigilare le uscite e di non svestirsi, ma questa cadde addormentata. Don Carlo assieme a un aiutante e con la complicità di un monaco che viveva nel convento di fronte, sorprese i due amanti e preso dalla furia, li massacrò nel palazzo San Severo dove la coppia risiedeva, . Era la notte tra il 16 e il 17 ottobre 1590.


La stanza dove avvenne il massacro (al secondo piano dell’angolo sinistro dell’edificio)

Si narra  come Carlo Gesualdo non agì nella brutale esecuzione della coppia ma furono i suoi sgherri ad eseguire il massacro. Altre fonti invece rilevarono che furono proprio don Carlo ad uccidere i due amanti con un pugnale.
La tragedia s’era compiuta e don Carlo, sporco di sangue e in preda alla follia scese di corca in strada piangendo ed urlando. S’allontanò da Napoli per timore di vendette da parte dei  familiari dei congiunti.
 La tragedia fu ripresa grazie a tre diverse testimonianze:
-        resoconti delle indagini condotte dal Gran Tribunale del vicariato del Regno di Napoli;
-        una lettera di Silva Albana, la domestica di Maria d’Avalos;
-        una lettera di Pietro Malitiale, detto “Bardotto” servo di Carlo.
Le due ultime lettere conterrebbero dei dettagli molto importanti.
«Su la mezza notte ritornò al palaggio il Principe, accompagnato da una truppa di cavalieri amici e parenti tutti armati; ed entrato dentro al Palaggio della Principessa, avanti della quale camera stava di scorta a sentinella la fida di lei cameriera Laura Scala, mezza addormentata su di un letto, che, sentendo il rumore gente, volle gridare; ma minacciata della vita dal Principe si ritrasse più morta che viva, il quale attendeva con un calcio la porta della camera e, tutto furibondo entrando dentro di essa con la continua scorta, trovò che nuda in letto, ed in braccia al Duca giaceva sua moglie (fra tanto la buona cameriera, visto il tempo opportuno, essendo tutti entrati dentro la camera, se ne fuggì via, né si seppe di lei più novella alcuna). A sì vista si può considerare come restasse stupito il povero Principe, il quale scossosi dallo stordimento che l'avea posto tal veduta, prima che li sonnacchiosi potessero rifiatare, si mirarono da più pugnali trafitti. Questo misfatto successe nella notte che si seguiva il giorno del 16 ottobre 1590».
L’altra versione:
«[Bardotto, servitore del principe] quando scese al cortiglio vidde che lo portiello dela porta dela strada stava aperto ch'esso testimonio se ne maravigliò molto, che a quella hora stesse aperto, et lo chiuse, tirò l'acqua dal puzzo, et la portò ad alto al signor don Carlo, che lo trovò che si era vestito, et [...] [gli chiese] dove voleva andare, ch'erano sei ore, e niente più, il quale Signor Don Carlo li disse, che voleva andare a caccia, et esso testimoniali disse, che quella ora non era ora di caccia, il Signor Don Carlo li rispose: «Vedrai, che caccia farò io»[.] Si finì di vestire et ordinò ad esso testimonio, che allumasse due torcie, che stavano alla camera [...] et allumate che furono, detto signor Don Carlo cacciò da sotto il letto una [...] daga con pugnale, et uno archibugetto da due palmi incirca, e pigliato ch'ebbe esto [...] trasì, e salì per questo caracole ad alto (una scala a chiocciola segreta) ad alto che saglie all'appartamento della signora Donna Maria d'Avalos, e sagliendo anche detto Don Carlo disse ad esso testimonio: «Voglio andare ad ammazzare lo duca d'Andria, e quella bagascia di Donna Maria!». E così sagliendo vide esso testimonio tre uomini (tre bravacci) li quali portavano una alabarda per uno ed un archebugetto! [...] Esplosero due colpi, oltre a vari insulti; i tre giovani uscirono e poi fu la volta di Carlo Gesualdo, che aveva le mani coperte di sangue. Chiese subito dove fosse Laura, l'intermediario, visto che era andata via. Bardotto e Gesualdo tornarono quindi in camera da letto, dove quest'ultimo aveva eliminato la coppia morente. »
L’ultima versione  sarebbe quella più affidabile e seguita. Alcuni dettagli sarebbero contradittori.
L'analisi dettagliata dei verbali  portò Cecil Gray a dubitare della veridicità di alcuni elementi riportati, a cominciare dalla trappola tesa dal giovane principe, che annunciò la sua intenzione di andare a caccia, che sembra ripresa da una frase pronunciata dal sultano Shahriyār in “Le mille e una notte”, la famosa opera frutto di pura fantasia. Inoltre, dettaglio di non secondaria rilevanza, sarebbe plausibile ritenere che Carlo non uccise con le sue mani i due, ma che avesse assoldato qualche mandante che lo facesse per lui.
 Carlo dopo l’uccisione dei due amanti fuggì da Napoli e si rifugiò a Gesualdo, nella provincia di Principato Ultra.
 Il processo non nacque sono l’egida della verità e dell’imparzialità
Venne archiviato il giorno dopo la sua apertura per ordine del viceré
stante la notorietà della causa giusta dalla quale fu mosso don Carlo Gesualdo, Principe di Venosa, ad ammazzare sua moglie e il duca d'Andria".
Le deposizioni non lasciavano nel Regno di Napoli dubbi:
 Maria d'Avalos era l'amante di Fabrizio Carafa (cosa, del resto, da tempo risaputa da tutti,
dallo stesso magistrato, dall'avvocato e dal viceré).
Il Regno di Napoli seguì con molta attenzione la vicenda così come la nobiltà dello Stato Pontificio.
Le testimonianze sarebbero chiare.
Carlo Gesualdo gridò ai suoi uomini:
Uccideteli. Uccidete questo vile e questa puttana.
Corna alla famiglia Gesualdo?
Parole , frasi che pronunciò prima di tornare dalla moglie Maria gridando..
Non deve essere ancora morta!
e  gli procurò altre ferite all’addome mentre altri aspetti rientrerebbero nella pura funzione e cioè fecero da sfondo a leggende.
Non si sa se i corpi dei due amanti furono gettati per strada, se fossero stati oggetto di violenza da parte di un monaco cappuccino o se fossero rimasti impiccati fino a quando la putrefazione dei corpi fosse giunta a tal punto da rendere necessario la sepoltura e quindi al restituzione delle salme alle rispettive famiglie e quindi
Lavate dalle loro ferite, vestite di raso nero e velluto nero”
Secondo i documenti d’archivio dal XVII secolo.
Alcune fonti citarono come Maria fu  atrocemente sgozzata e sventrata ed esposta nuda in mezzo alle scale del palazzo.
(Le cronache citarono come i Regi Consiglieri ed i Giudici Criminali della Gran Corte della Vicaria,  si recarono nella stanza da letto in cui avvenne il massacro. Trovarono il corpo straziato, senza vita, di Fabrizio Carafa e a tre passi da lui giaceva il cadavere insanguinato della povera Maria.
Per il disonore e lo scandalo arrecato alla nobiltà, i corpi degli sfortunati amanti furono esposti nudi come monito, la mattinata seguente in mezzo alle scale del palazzo e tutta la città corse a vederli).
I corpi furono sepolti secondo le disposizioni delle relative famiglie: Maria d’Avalos, fu sepolta nel lato destro della Chiesa di S. Domenico Maggiore, nella Cappella di Ferrante Carafa, suo primo marito, insieme ai suoi figlioletti Ferdinando e Beatrice.

Napoli – Chiesa di San Domenico Maggiore


Cappella Carafa



Fabrizio Carafa, invece, fu seppellito in una bara e consegnato al gesuita Don Carlo Mastrillo su disposizione della moglie Donna Maria Carafa, che per il disonore si ritirò a vita monastica.
Negli anni ”90 l’Università di Pisa ricevette l’incarico di scoperchiare le tombe in cui secondo ipotesi, riposavano gli scheletri dei due amanti. Vi erano dei resti mortali: si ipotizzò per le lesioni ricevute quello di Fabrizio Carafa, ma di Maria D’Avalos non vi era traccia. Forse lì non c’è mai stata. 
Si dice che dalla notte della tragedia fino ai secoli dopo, coloro che abitavano nei pressi del palazzo potevano distinguere bene le urla strazianti di Maria D’Avalos.
In più, sul Palazzo Sansevero pendeva una sciagura: chi lo abitava era maledetto fino alla settima generazione. Questo durò fino al 1889, quando un’ala del palazzo crollò portando con sé la stanza del peccato e dell’omicidio. Altre voci raccontano che tra l’obelisco di San Domenico Maggiore e il portale del Palazzo di Sangro dei Principi di San Severo si aggira una figura eterea, di tale bellezza che singhiozza: il fantasma di Maria.

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Per quei tempi la colpa di Maria era per il diritto non messa in discussione. Il marito Carlo aveva goduto delle facoltà di ucciderli agendo al fine di vendicare il suo onore e quella della sua famiglia.
Negli ambienti spagnoli, così anche a Napoli, era usanza uccidere la donna adultera ed anche il suo amante mentre al Nord Italia la tradizione prevedeva solo la morte della moglie.
La stessa famiglia Carafa criticò Carlo Gesualdo per aver fatto ricorso alla servitù per uccidere il loro parente. Malgrado Carlo abbia agito secondo la consuetudine del tempo, si rifugiò a Gesualdo, lontano dagli ambienti nobiliari e dalla famiglia delle vittime di cui teneva le reazioni.
Visse per ben diciassette anni nella sua residenza di campagna.
Il  ritiro fu accompagnato da altri “ritiri” da parte di alcuni membri della sua famiglia e questo nonostante l’intervento del viceré  di Napoli dell’epoca Juan de Zuniga che cercò di contenere qualsiasi azione di vendetta  nei confronti di Carlo Gesualdo e dei suoi parenti.
Il padre di Carlo, Fabrizio, morì il 2 dicembre 1591, anche lui lontano da Napoli nel castello di Calitri. Durante l’esilio Carlo Gesualdo diventò, all’età di 25 anni, capofamiglia ed uno dei proprietari terrieri più ricchi del Mezzogiorno.

Calitri Castello



Nel 1594 Carlo Gesualdo si sposò una secondo volta con Eleonora (Leonora) d’Este, sorella di Cesare d’Este, erede apparente del duca Alfonso II.
 La leggenda ci tramandò la visione di Carlo in preda a crisi per il ritorno nel suo animo del passato per i suoi crimini.
La scomparsa del secondo figlio, nato dal matrimonio con Eleonora d’Este, fu considerata da don Carlo come una condanna divina per i suoi peccati e si fece largo in lui la necessità di un percorso di espiazione.
Cero don Carlo aveva dei rimorsi di conoscenza non  solo per i delitti ma anche per le sue strane abitudini che potrebbero essere state la causa del tradimento di Maria. Comportamento che seguì, come un modello ci vita, anche con la sua seconda moglie.
Non si studia la vita intima dei compositori e degli scrittori che dovrebbe fare parte della personalità e della creatività di un artista.
Infatti l’espiazione di questo senso di colpa lo portò ad accettare le pratiche masochistiche e per questo motivo reclutò dei giovani, in età adolescenziale, per fustigarlo e scacciare da lui quei demoni che lo perseguitavano.
Si tramandò come don Carlo Gesualdo amasse farsi incatenare da prestanti e fidati schiavi e poi farsi frustare o preferisse farsi riscaldare la schiena a letto dagli abbracci di un certo Castelvietro di Modena.
Mosso dai sensi di colpa commissionò nel 1609 al pittore Giovanni Balducci una tela chiamata il “Perdono di Gesualdo”. Dipinto ancora oggi conservato nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a Avellino.


Il Perdono di Gesualdo di Giovanni Balducci (1609). Il compositore è raffigurato inginocchiato, in basso a sinistra, davanti allo zio Carlo Borromeo in veste da cardinale


Il restauro del Perdono di Gesualdo ha rivelato il ritratto di Eleonora d'Este (a destra), precedentemente "nascosto" da una clarissa (a sinistra), nel XVII secolo

Tra gli esercizi di mortificazione della carne, come la recita l’Atto di Dolore, furono presenti le pratiche di penitenza, severe ed anche stravaganti, che erano incoraggiate allora dalla Controriforma.
Pratiche legate ad una fervente devozione, che lo opprimeva, piuttosto che ad un piacere morboso o perverso.
Nel 1611, e nell'anno successivo, il principe ottenne le reliquie di Carlo Borromeo, diventato suo ideale padrino e santi patrono.
In una lettera dell’1 agosto 1612, ringraziò il cugino Federico Borromeo..
«Non potevo aspettarmi o ricevere oggi dalla gentilezza di Vostra Signoria Illustrata una grazia più preziosa, né più desiderata di quella che si degnò di concedermi con il sandalo che il glorioso San Carlo usava pontificamente. L'ho salutata e baciata con grande gioia e consolazione, ma sarà preservata e trattenuta con il dovuto rispetto e devozione».
Nel 1619  fece stampare la sua opera “Tenebrae Responsoria” dove la figura di Cristo martire fu espressa musicalmente in modo molto toccante e assolutamente personale.
Il 29 agosto 1613 il figlio Emanuele Gesualdo, avuto dalla prima moglie Donna Laura d’Avalos, morì
«per esser in doi volte caduto da cavallo nella caccia»,
allo stesso modo dello zio, fratello di Carlo.
La moglie Eleonora era in stato di gravidanza ed aveva solo una figlia, Isabella di due anni.
Il principe Carlo fu colpito dalla morte del figlio e si ritirò nell’anticamera della “camera dello Zembalo” ovvero la camera da musica con il clavicembalo.
In questa camera, dopo diciotto giorni, si spense l’8 settembre 1613… si lasciò andare come in un estremo suicidio..
«non havendo il signor Prencipe di Venosa altro figliolo, sentette assai et in modo ch'oltre al suo male ancho s'aggravò».
Morì dopo atroci sofferenze e paranoie sull’incolumità della sua vita. 
Grazie ai documenti ritrovati nell’archivio storico del banco di Napoli, fu possibile ricostruire storicamente la vicenda. In base a prelievi monetari che Gesualdo mosse, si potè dedurre che stava premeditando una vendetta. All’epoca dei fatti, prima di erogare i soldi si esigeva il nome, il motivo e infine la cifra consegnata
La nuora, Maria Polissena, diede alla luce una bambina poco dopo e la linea del principe Carlo si estinse.
Il testamento del principe redato pochi giorni prima della sua morte da don Pietro Cappuccio, costituì un ultimo tentativo per conservare tutti i titoli, le terre ed i vasti domini feudali della famiglia in assenza di una discendenza maschile diretta.
 
«Verum se il postumo che dovrà nascere da detta Donna Polissena serà femmina, in questo caso istituisco mio herede universale sopra di tutti li miei beni la suddetta Donna Isabella, mia nipote [...] ordino et comando a detta Donna Isabella mia nipote che tanto restando herede quandocumque come di sopra, quanto essendo dotata delli cento mille ducati, debba pigliare per marito il primogenito di Don Cesare [Gesualdo] et in difetto del primo debba pigliare il secondo et in difetto del secondo il terzo [i figli di Cesare], et così s'intende degli altri per ordine, et mancando la linea dì detto Don Cesare, debba pigliare nello stesso ordine uno dei figli, il più vicino della detta famiglia. et mancando la linea dì detto Don Cesare, debba pigliare nello stesso ordine uno dei figli ».
La principessa Isabella (figlia di Emanuele e di Maria Polissena di Forstenber)) sposò nel 1622 don Nicolò Ludovisi, nipote di Gregorio XV, della nobiltà romano-bolognese senza alcun legame diretto con la dinastia dei Gesualdo di Venisa (dal matrimonio una figlia di nome Lavinia).
Il principe fu sepolto accanto al figlio Emanuele nella cappella di Santa Maria delle Grazie, ma poi la salma venne trasferita nella chiesa del Gesù Nuovo di Napoli, ai piedi dell'altare dedicato a Ignazio di Loyola, la cui costruzione era stata progettata da Gesualdo prima di morire. Oggi si conosce solo l'ubicazione della sua tomba. Dopo il terremoto del 1688, i lavori di ricostruzione dell'edificio religioso rimossero la lapide.
Il rapido susseguirsi di eventi tragici, l'attività frenetica mostrata da Gesualdo nei suoi ultimi giorni e le volontà espresse con autorevolezza nel testamento sono incoerenti con l'immagine del nobile in preda alla pazzia. Le circostanze della sua morte risultatono tuttavia oscure. Nel 1632, il cronista Ferrante della Marra affermò nello scritto Rovine di case napoletane del suo tempo:
«Carlo Gesualdo fu assalito ed offeso da gran moltitudine di demoni, li quali non lo feron per molti giorni mai quietare se non dopo che dieci o dodici giovani, che ei tenea a posta per suoi carnefici, non lo caricavano (ed ei sorrideva) tre volte il giorno di asprissime battiture, ed in questo stato miserabilmente se ne morì in Gesualdo ».
Verosimilmente colpito dall'immagine del principe torturato, Michele Giustiniani, di passaggio a Gesualdo, scrisse in una lettera datata 10 ottobre 1674 (a oltre sessant'anni dai fatti):
«In questo luogo, il dì 3 settembre del 1613, seguì la morte di Don Carlo Gesualdo, Prencipe di Venosa, eccellentissimo musico, come dimostrano le sue opere stampate, e suonatore di Arcileuto, accelerata da una strana infermità, la quale gli rendeva soavi le percosse che si faceva dare nelle tempie e nelle altre parti del corpo, con fraporvi un involto piccolo di stracci. »
Prima leggenda nera
La nascita di Leonora, la seconda nipote di Gesualdo, fu accolta senza troppo clamore dalla popolazione. La vedova del principe, Eleonora, di ritorno a Venosa per assistere alla nascita della principessa Maria Polissena, riportò la notizia al fratello Cesare con queste parole:
«Ho battezzato la bambina, e le sono stati dati i nomi Leonora e Emanuela. È bellissima e qui è il mio passatempo poi che non vuole stare se non da me. Solo che dice mille chiacchiere et mostra giudizio per non avere se non due anni. [...] è nata con i centomila ducati di dote lasciatole dal principe, mio signore. Ma il maggiore, che eredita da tutti gli stati, avrà in dote più di un milione in oro senza contare il resto .»
Eleonora d'Este morì nel 1637.
Nel frattempo, la perdita della fortuna e delle proprietà signorili fu accompagnata da voci volte a "spiegare" tali grandi disgrazie per effetto di una qualche punizione divina. Si credeva generalmente che la colpa fosse di Carlo Gesualdo, il quale pareva aver perso la ragione e trattava i suoi vassalli con avidità e lussuria, oltre che in modo tirannico, scatenando l'ira di Dio contro di lui.
Pochi giorni dopo la morte di Gesualdo, un cronista modenese, Giovan Battista Spaccini, inaugurò la "leggenda nera" che si concentrò sulla memoria del principe caduto:
«Tra tanto teneva una bellissima concubina, la quale l'aveva affatturato di maniera tale che non poteva vedere la principessa donna (Leonora) e quando lei vi stava lontano moriva di passione di vederla, e poi mai più la guardava. Non poteva mai dormire se uno non vi stesse con lui abbracciato e vi tenisse caldo le rene, e per questo aveva un Castelvietro da Modona v'era molto caro, dormendo continuamente con lui quando non stava la principessa sieco.»
La corte della famiglia Estense si era ritirata a Modena, cacciata da Ferrara dalle truppe papali. Il ricordo della mancata trattativa tra Alfonso II e il cardinale Alfonso Gesualdo, decano del Sacro Collegio e zio del principe, generarono sicuramente risentimento nei confronti del Gesualdo. 
Le maldicenze si diffusero presto da Modena a Napoli, da Roma ad altre regioni dell'Italia. Risultò strano e interessante, tuttavia, osservare che, anche nei racconti più oscuri del tempo della "prigionia" di Gesualdo nel suo castello, si faccia riferimento alla seconda consorte del principe ma mai alla prima, Maria d'Avalos, il cui omicidio, già lontano, pareva sorprendentemente dimenticato da tutti.
Torquato Tasso compose tre sonetti e un madrigale in cui magnifica la “colpa” dei due amanti colpevoli.
Il tema diventò oggetto di studio da parte di critici storici ed umanisti dell’epoca
Si diffuse anche la leggenda secondo la quale da allora a Napoli, a Palazzo Sansevero, fosse possibile vedere il fantasma di Maria d’Avalos.
Nel 1995 “Morte in cinque voci”, un documentario-dramma diretto da Werner Herzog per la ZDF (televisione svizzera) che rievocò la vita tormentata, la leggenda e l’opera visionaria del compositore in maniera più romanzata unendo analisi storiche e testimonianze degli abitanti Napoli, Gesualdo, e dei discendenti delle famiglie coinvolte nell'omicidio di Maria d'Avalos, tra cui il principe Francesco d'Avalos) che storicamente corretta o rigorosa. Maria venne descritta come
"una donna molto fiera".

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Note

(1)
ABATE1 (di Trapani)  L’8.3.1234 Gilberto Abate, tramite il fratello, il dominus Enrico
Abate abitante a Trapani, acquistò per 1750 tarì dal dominus Nicoletto Asmundo abitante di Calatafimi, falconiere dell’imperatore Federico, e dalla moglie Margherita, col consenso di Benedetto loro figlio minorenne, il territorio con terre lavorative, selva e foresta denominato Inichi (Inici), nel tenimento di Calatafimi (Asp, Trabia serie A, 1449, 15). 
Lo stesso Gilberto, che al momento della sua rivolta contro Carlo d’Angiò risultava signore del casale Ciminna, ebbe confiscato quest’ultimo casale dal sovrano angioino che nel 1271-72 lo concesse per metà agli eredi dell’Abate e per l’altra metà a Folque de Venellis (RA, VIII, 68; RA, VIII, 184), il quale ebbe come successore nel 1280-81 Bartholomé de Venellis (RA, XXIV, 127).
- Il figlio di Gilberto, Palmerio Abate  nel 1278-79 era titolare di imprecisati beni feudali in Sicilia (RA, XXI, 266; Catalioto, 1995, 308) ed il 15.5.1292 fu reintegrato come custode della foresta di Partinico, ruolo dal quale era stato estromesso da Matteo di Termini (La Mantia, 1956, 183).
Nel 1292 risultava titolare del casale e feudo di Asinelli (l’odierno Isnello), dal quale parte degli abitanti si erano allontanati per sottrarsi ai servizi feudali cui erano obbligati (La Mantia, 1956, 233; Sciascia, 1993, 130).
Palmerio morì nell’estate 1300 in seguito alle ferite riportate nella battaglia di Ponza.
- Gli successe il fratello miles Riccardo Abate, vivente nell’aprile 1303, che dalla prima moglie ebbe i figli Nicola e Enrico, mentre dalla seconda moglie Ricca ebbe il figlio Giacomo (Asp, Tab. S.M. Scale, 21: 2.4.1303).
- Il dominus miles Nicola (I) Abate sposò la palermitana Filippa de Milite, cugina di Matteo Sclafani. Dal matrimonio  i maschi Riccardo e Palmerio e le femmine Preziosa (che sposò Garsiolo de Yvar) e Albamonte (che sposò Marino Capece). Abbiamo sue notizie dall’8.3.1309 (Asp, Misc. Arch. II, 127b, 199v) 2 al 6.12.1336 (Bresc, 1986, 908 e 883)3, mentre risulta già morto il 7.4.1337 (Vind.) (Asp, ND, Rustico de Rusticis, I, 81, 36). Il 12.2.1330 Nicola Abate stipulò una transazione col monastero di S. Caterina di Palermo per definire il confine tra il tenimento di Munkilebbi (ora Montelepre) di proprietà del monastero e il suo casale di Carini (Asp, Monastero S. Caterina di Palermo, 65, 17 ss).
 
2(In questo atto Nicola Abate concede in gabella ad estalium ai fratelli Perrello e Franchono de Cisario
«dua tenimenta terrarum quorum unum dicitur casale Calidum
et alterum Tirrasinum sita in territoriis Carini et Chinnisi iuxta tenimenta terrarum
Chinnisi qua tenet heres domini Mattei Pipitoni et secus tenimenta terrarum Carini et
iuxta tenimentum terrarum quod diciturMunchilebi et secus nemus Partinici via
publica mediante»
per 7 anni dal successivo primo settembre VIII ind. per 140 onze annue.
 
3 ( Nel febbraio 1330 il milite Nicolò Abate era in lite con il monastero di S. Caterina di Palermo sul possesso di un tenimento di terre chiamato Munkilebi. Nel febbraio 1337 venne sancita l’appartenenza del tenimento Munkilebi al monastero di S. Caterina (Garufi, 1902, 75-77, n. 166, 170).
 
La descrizione dei beni feudali posseduti da Nicola Abate nella D. F. del 1335 lascia adito a talune difficoltà interpretative, che possono essere sciolte dal confronto fra le versioni riportate dalle due principali fonti della Descriptio, che risultano nel caso in questione particolarmente tormentate, e da altri coevi documenti. Il manoscritto della Bsp riporta:
«Nicolaus Abbas miles pro
Asinello, Chifalo, Carino roch-is, pro terra Chiminne, Terrasinis, casalis Callicuda
et Inichi eris symonis 600»;
il manoscritto della Bcp, invece, riporta:
«Nicolaus Abbas miles pro Asinello, Chifala, Carmorochis, Chiminne, Tirrasinis,
casalis Cabis Cudis, Inichi 600».
Nicola Abate quindi ricavava 600 onze di reddito da Isnello (Asinello)4, da Cefalà, da Carini5, da Terrasini, dal casale Cabiscudi (Callicuda, in ms Bsp; si tratta di Cudia), da Inici, mentre con
buona verisimiglianza i due termini eris simonis che si trovano soltanto nel manoscritto della Bsp costituiscono l’errata trascrizione del nome dei due tenimenti Umri (ora Ummari) e Simeni, che si trovavano in vicinanza di Inici e che sappiamo essere appartenuti alla famiglia Abate fin dal Duecento (Sciascia, 1993, pp. 115, 120, 132).
Per quel che attiene Ciminna, che certamente secondo la D. F. del 1335 era posseduta da Matteo Sclafani (come entrambi i manoscritti della D. F. attestano in altra parte del documento e come abbiamo potuto costatare da altre fonti per il periodo compreso dal 1328 al 1349), la chiave interpretativa ci viene fornita dal termine «roch-is» che segue la parola «Carino», e precede
«Chiminne», poiché certamente Nicola Abate possedette il tenimento delle Rocche in territorio di Ciminna, probabilmente quello stesso che era stato lasciato in feudo da Carlo d’Angiò nel 1271 agli eredi di Gilberto Abate, nonno dello stesso Nicola.
 
4 Isnello figura in potere di Nicola Abate senior in un atto stipulato il 6.12.1336 (Asp, ND, S. Pellegrino, I, 2).
5 Nel 1271 il castello di Carini venne concesso da Carlo d’Angiò a Jean e Simon de Montfort (RA, VI, 154).
 
Solo che già nel 1333 Nicola Abate risulta averlo ceduto al cugino della moglie, Matteo Sclafani, che ne godeva i frutti e che, però, nel testamento di quello stesso anno disponeva un lascito di 100 onze ai due figli di Nicola, rispettivamente Palmerio e Riccardo,
«in restauratione fructum tenimenti
terrarum que dicuntur roccarum de Chiminna perceptarum dudum per
eundem testatorem» (Asp, Moncada, 396, 57).
Nel successivo testamento del 2.4.1345 Matteo Sclafani dispose che quel tenimento fosse restituito a Riccardo Abate, figlio del defunto Nicolò Abate, in virtù della donazione irrevocabile fra vivi (Bcc, Tab. S. N. Arena, 331). Alla luce di quanto detto in precedenza, il testo originario della D. F. relativo a Nicola Abate potrebbe essere stato il seguente:
«Nicolaus Abbas miles pro Asinello, Chifalo, Carino, Rochis terre Chiminne, Terrasinis,
casalibus Cudie, Inichi, Umris, Symenis unc. 600».
- Filippa De Milite, moglie di Nicola (I) Abate, nel testamento del 5.2.1348 disponeva delle terre di Inici, Racanziri e Bonagia (Asp, Tab. S. M. Scale, 133; Bresc, 1986, 678). Risulta morta il
13.1.1349 (Acfup, VIII, 64).
- Riccardo (I) Abate, figlio maggiore di Nicola, risulta sposato e quindi emancipato dalla patria potestà in data 23.8.1336 (Acfup, VI, 299). Riccardo Abate, signore di Isnello, Cefalà6 e Carini, fu tesoriere del regno almeno nell’ottobre 1351(7), e maestro razionale almeno dal 12.1354 al 8.6.1358 (Cosentino, 1885, 130-132; Asp, P, 2, 338). Re Pietro II gli assegnò in data imprecisata un reddito annuo di 100 onze con l’obbligo del servizio militare (Asp, C, 7, 437).
Nel 1340 risulta avere una controversia con Aloysia Maletta (Pasciuta, 2003, 194; Acp, Senato, XIII, 1r-v), che verosimilmente si concluse con l’assegnazione ai due figli di Nicola Abate, Palmerio e Riccardo, del feudo Misilcassimo, che risulta in loro potere nel gennaio 1341 e che avevano ottenuto dalla M.R.C. come corrispettivo di un debito non riscosso. Il loro proposito di vendere quel feudo incontrò l’opposizione del milite Giovanni de Calvelli che su quello stesso feudo rivendicava dei diritti (Acp, Senato, XIII, 38v, 16.2.1341). Verosimilmente Misilcassimo fu poi venduto a Bernardo Raimondo di Monterubio, che ne risulta possessore nel 1348 (Lentini-Scaturro, 1996, 37-38). Nell’adoa del 1345 Riccardo Abate fu chiamato a fornire sette cavalli armati (pari a 140 onze di reddito). Morì nel febbraio 1359 a Salemi durante un’operazione militare
(Fazello, 1992, 648).
6 Riccardo Abate il 20.8.1346 risulta feudatario del feudo Favarotta in territorio di Cefalà dato in appalto a Bindo di Ser Lombardo (Asp, SN, 10N, 58), e del castello e del feudo di Cefalà nel corso del 1349 (Acfup, VIII, 64; Asp, ND, Enrico de Citella, I, 79, 188v).
7 Bcp, ms Qq E 100, n. 6-7, 172. Cosentino, 1885, 149.
………………………………….
 
Nota N. 2
Casato : La Grua  Talamanca
 
Gilberto (Gispert) Talamanca, barone di Vicari
Nato: 1312 (?)
Morto; dopo il 1417
Marito di: Ilaria La Grua, baronessa di Carini
Padre: Ubertino La Grua Talamanca
 
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Ubertino La Grua Talamanca
Nato; 1360 (?)
Morto: (?)
Figlio di: Gilberto (Gispert) Talamanca, barone di Misilmeri e Vicari e di Ilaria Talamanca, signora di Carini.
Marito: Diana La Grua Talamanca
Padre: Eufemia Alliata – Giovanni La Grua Talamanca, signore di Vicari Carini e Misilmeri – Maria (Ilaria) Abbadellis
 
………………………………..
 
Giovanni La Grua Talamanca, signore di Carini, Vicari e Misilmeri
Nato: 1387 (?)
Morto: 1464
Figlio di: Ubertino La Grua Talamanca e Diana La Grua Talamanca
Marito di: Marghera La Grua Talamanca – Antonella Abbatellis
Padre di: Ilaria La Grua, baronessa di Monforte – Pietro La Grua Talamanca, barone di Carini, Misilmeri e Vicati
Fratello di: Eufemia Alliata e Maria /Ilaria) Abbatellis.
 
……………………………
 
Pietro La Grua Talamanca, barone di Carini, Misilmeri e Vicari
Nato: 1445 circa
Morto: 15 marzo 1486 circa
Figlio di: Giovanni La Grua Talamanca, signore di Carini, Misilmeri  e Vicari, e di Antonella Abbatellis
Marito di: Violante Bardi Mastrantonio
Padre di: Gerardo La Grua Talamanca - Vicenzo La Grua Talamanca , signore di Carini e Misilmeri – Antonia Giovanella La Grua Talamanca – Utilia (Autilia) La Grua Talamanca – Giulia La Grua Talamanca;
Fratellastro di: Ilaria La Grua, baronessa di Monforte
 
…………………………….
 
Giovanni Vincenzo La Grua Talamanca
Nato: 1476
Morto: Carini(Palermo), 29 maggio 1517
Figlio: Pietro La Grua Talamanca, barone di Carini, Misilmeri e Vicari e di Violante Bardi Mastrantonio
Marito di: Ilaria (Eulalia) Aiutamicristo e di Elisabetta Bracco e Calvello
Padre di: pietruccio La Grua, Barone di Carini – Elisabetta La grua Talamanca – Elisabetta La Grua Talamanca – Giovanna La Grua Talamanca
Fratello di: Gerardo La Grua Talamanca e Antonia Giovannella La Grua Talamanca
Fratellastro di: Utilia (Autilia) La Grua Talamanca e Giulia La Grua Talamanca
 
……………………………….

Pietruccio La Grua Talamanca
Nato: 1490 circa
Morto: 6 luglio 1535
Figlio: di Giovanni Vincenzo La Grua, signore di Carini e Misilmeri e di Ilaria (Eulalia) Aiutamicristo
Marito di: Eleonora Manriquez
Padre di: Vincenzo La Grua Talamanca, Signore di Carini
Fratello di : Elisabetta La Grua Talamanca - Elisabetta La Grua Talamanca
Fratellastro di: Francesco Del Bosco, VII barone di Baida e di Misilmeri -  Federico del Bosco – Giovanna La Grua Talamanca
……………….

Vincenzo La Grua Talamanca  - Signore di Carini
Nato: 11 novembre 1527
Morto: 22 marzo 1592
Figlio di Pietruccio La Grua, barone di Carini e di Eleonora Manriquez
Marito di Laura Lanza
Padre di Cesare La Grua Talamanca, Signore di Carini

 

Nota – 3

Il castello di Montelepre

Fino alla prima parte del XV secolo la zona di Montelepre era conosciuta con il nome di Munchilebbi, un antico insediamento in una zona ricchissima di acqua divenuto successivamente un feudo appartenente al Monastero di Santa Caterina al Cassaro di Palermo. La storia cambia nel 1429 quando il feudo venne acquistato dalla Cattedrale di Monreale, all’epoca guidata dall’Arcivescovo Giovanni Ventimiglia. 
L’Arcivescovo fece impiantare un vasto oliveto che diede l’avvio ad una profonda trasformazione del paesaggio rurale del feudo favorendo il sorgere di un piccolo centro abitato ben prima della colonizzazione feudale moderna.
Dopo aver ricevuto il consenso da parte di re Alfonso V il Magnanimo fece edificare una fortificazione a scopi difensivi e di controllo poiché la zona era soggetta alle scorrerie di predoni e briganti.
Il primo nucleo di Montelepre mostra una serie di case monocellulari poste attorno alla torre. Case costruite con materiali poveri (ciottoli e pietrame calcareo) mentre il resto dell’abitato presenta una pianta ortogonale tipica delle nuove fondazioni pianificate da parte del fondatore.
Quindi siamo in presenza di una comunità che si svilupperà nel corso del tempo.
Nei secoli il paese vedrà l’alternarsi di diversi esponenti di vario rango della nobiltà siciliana tra cui Alvaro Vernagallo e il fratello Ludovico, quest’ultimo passato alla storia per essere l’amante della Baronessa di Carini Laura Lanza, assieme alla quale verrà ucciso dal di lei padre Cesare nel 1563. Nel 1812 il villaggio diventa definitivamente un comune acquisendo la sua denominazione attuale: il Castello è una delle testimonianze storiche più importanti della storia del paese. La “Torre Ventimiglia” venne ultimata nel 1435 divenendo uno dei riferimenti attorno al quale si strutturò definitivamente la comunità di Montelepre ormai passato da luogo rurale a centro feudale. Costruito in cima ad una collina il Castello di Montelepre avvolge e quasi sovrasta il paese con i suoi 24 metri in altezza. La torre di pianta rettangolare si sviluppa su tre piani e la sua facciata esterna geometricamente massiccia e austera, in cui spicca un orologio installato molto tempo dopo rispetto all’edificazione, ricalca lo stereotipo delle fortificazioni medievali. L’ingresso era blindato da una bertesca e da un ponte levatoio. La facciata esterna è caratterizzata dalla presenza di diverse finestre a due o tre fori che illuminavano le stanze del palazzo ai piani nobili mentre per il pian terreno, destinato ai servizi e all’alloggio dei coloni la luce passava da piccole feritoie. Le chiavi di volta, seppur consunte dal tempo, raffigurano ancora gli stemmi tra cui la mitra episcopale, ricollegabile all’Arcivescovo Ventimiglia.
L’accesso ai piani signorili avveniva tramite una scala situata in corrispondenza del ponte levatoio, non sopravvissuto ai giorni nostri così come le mura perimetrali: quelle interne sono state costruite con pietrame irregolare hanno uno spessore che va dai due metri del pian terreno al metro e mezzo dei restanti livelli. Gli interni dei piani signorili sono caratterizzati dalla presenza volte a crociera costolonate e dalla presenza di chiavi; al secondo piano si trovavano ambienti diversi tra loro inclusa la cappella del palazzo mentre il terzo piano è completato dalla presenza di una terrazza merlata dalla quale è possibile ammirare un panorama mozzafiato del paese.
Numerose nicchie e finestre (bifore e una trifora) con sedili in pietra animano gli ambienti residenziali mentre il pianoterra prende luce da feritoie strombate. Ma lo sforzo decorativo si nota soprattutto nelle chiavi di volta tutte sagomate e riproducenti degli stemmi, oggi illegibili, nei beccatelli di variato disegno e nelle finestre con colonnine di esile struttura. I muri (m 2,10 di spessore) sono costruiti in modo irregolare con pietrame informe tranne negli angoli e nelle finestre delimitati da pietre squadrate. La lunga scala con il balconcino e la torretta d’ingresso laterale sono modifiche moderne per le comodità di accesso. Infine, l’orologio solare posto sulla terrazza ha modificato in parte la regolarità dei merli, ormai inutili. Il torrione si trova in un buono stato di conservazione.
L’accesso alla torre avveniva solamente dal primo piano, tramite una porta protetta sia da una bertesca, sia da un ponte levatoio di cui rimangono le fessure per il passaggio del braccio di leva.
Oggi al Castello si trova il Museo Civico del paese all’interno del quale sono custoditi i reperti archeologici rinvenuti negli scavi fatti sul territorio.

 






Dal punto di vista planimetrico la torre presenta i seguenti aspetti:
-        pianta rettangolare di (21 x 17)m che si sviluppa su tre piani con una terrazza merlata;
-        il piano terra con quattro vani su due livelli diversi e coperti da volte a botte;
-        Il primo piano era originariamente formato da due saloni rettangolari coperti con tre volte a crociera divise da un costolone;
-        Il secondo piano rispecchia la divisione del primo con la differenza che il lato orientale è occupato da tre ambienti di dimensioni diverse: quello centrale serviva da cappella.
-        Una cisterna è stata ricavata nello spessore del muro nord.
 
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Nota N. 4
La Cripta . Cappella dei Lanza di Trabia nella Chiesa di Santa Cita (San Mamiliano) a Palermo

 

La  Pietà 



L’inizio della costruzione della chiesa di S. Cita, posta nel quartiere Castellamare di Palermo, risalirebbe al XIV secolo.
-        Nel 1369 sono documentati la chiesa e l’ospedale di S. Cita presso la “Porta San Giorgio” ed edificata da una comunità lucchese;
-        1428, i domenicani della vicina chiesa di San Domenico chiesero la concessione di luogo più appartato a Nicolò Speciale, viceré di Sicilia e a Ubertino de Marinis, arcivescovo di Palermo;
-        1458, fu edificata la consorella Chiesa di San Vincenzo Ferreri dei “Confettieri”;
-        1586 – 1503, ebbe inizio la costruzione della nuova chiesa di Santa Cita. Una costruzione diretta dall’architetto Antonio di Salco. Ci fu un interruzione per la morte dello stesso architetto mentre si gettavano le fondamenta. Grazie alle numerose commissioni di mercanti e patrocinatori, Antonello Gagini realizzò nel preesistente luogo di culto monumentali apparati funebri d'impianto rinascimentale. La ricostruzione comportò lo smantellamento e spesso la perdita dei preziosi aggregati marmorei. In molti casi i capolavori furono sapientemente ricollocati nella nuova struttura.
-        1586; La ripresa dei lavori diretti da Giuseppe Giacalone prevede lo spostamento del cantiere: la chiesa dei Santi Quaranta Martiri Pisani al Casalotto intralcia con la realizzazione dell'abside secondo il progetto;
-        1603:  Consacrazione del nuovo edificio, le vecchie colonne della primitiva costruzione sono attualmente visibili nel chiostro;
-        1781; la chiesa fu portata definitivamente a termine;
-         1943; I bombardamenti della seconda guerra mondiale devastano la navata sinistra e le prime due cappelle della navata destra.
-        1945; Nel primo dopoguerra la chiesa è utilizzata come deposito di derrate alimentari e aula di Tribunale.
-        1952; riapertura e dedicazione a San Mamiliano
La chiesa di San Mamiliano fu quindi costruita sul preesistente sito della Chiesa di S. Cita, lavori che iniziarono agli inizi del 1600.
 Presenta degli aspetti di grandissima importanza dal punto di vista storico e architettonico.
Dietro l’altare si trova l’arco del Gagini che raffigura storie della vita di Santa Cita, Sono presenti anche immagini di  vescovi e prelati. Lateralmente, sulla destra, si trova   la Cappella del Rosario realizzata con marmi policromi e bassorilievi di Gioacchino Vitagliano, cognato del Serpotta.
 La  Cappella fu eseguita su un modello in creta del Serpotta ed affreschi di Pietro Dell’Aquila. Sempre sulla destra della Cappella di Santa Rosalia si trova la statua della Madonna della Pietà, attribuita a Giorgio da Milano nel tardo 1440  e l’arco del Gagini che raffigura l’imperatore Ottaviano e la Sibilla cumana. La Cappella ospita anche la tomba di Caterina Platamone e  di Giuseppe Platamone. 



Cappella della Madonna del Rosario

A Sinistra dell’altare, si trova la Cappella Lanza. Da subito l’occhio cade sul maestoso sarcofago di Ottavio Lanza (simile a quello di Federico II di Svevia). 


E’ in porfido rosso simbolo dell’imperatore mentre quello di Ottavio Lanza in pietra grigia di Billiemi. Accanto ad Ottavio, Dorotea, la figlia che aveva sposato il Principe di Valguarnera. Il sarcofago è realizzato con marmo che non esiste più, il libeccio, che si estraeva dalle cave di Custonaci (TP).
Di fronte al sarcofago di Dorotea è posto un altro sarcofago, datato intorno al 500, ma ignoto. Completa la Cappella Lanza il sarcofago di Ercole Branciforte, genero di Ottavio, perché  aveva sposato la figlia Agata, in seconde nozze.
Nella chiesa si trova la Cripta Lanza  che è per molti aspetti misteriosa….
…..  quando è avvenuto il ritrovamento ?
Nel 1997 degli operai stavano svolgendo lavori di ristrutturazione nella chiesa. Durante i lavori s’imbatterono in qualcosa di straordinario ed inaspettato
Il pavimento della cappella Lanza, durante i lavori e le vibrazioni causate dall’uso degli attrezzi, subì un crollo con un cedimento del pavimento.
Venne alla luce una scala ripida che conduceva in un locale sotterraneo.
Due operai scesero i gradini, con un misto di timore ed emozione, facendosi luce con l’uso di una torcia.
Si  presento un piccolo vano pieno di oggetti disposti in modo confuso o disordinato, un altare rovinato in più punti a causa di colonnine che si erano staccate, tessere di marmo sparse sul pavimento, dei puttini di marmo e una statua della Madonna in un angolo. C’erano  delle tombe nel vano del sottoscala e un grande disordine di macerie. La cripta della famiglia Lanza riapparve casualmente, dopo essere rimasta interrata per chissà quanto tempo.



Ma perché è scomparsa e quando? Conteneva opere di pregio e di interesse artistico e culurale? A chi appartenevano le tombe ritrovate?
“Gli enti competenti si mobilitarono immediatamente per mettere in sicurezza e restaurare questo piccolo scrigno di arte e bellezza, nascosto nelle viscere della terra, che sembrava irrimediabilmente perduto. Probabilmente l’interramento della cripta avviene nella notte tra il 28 Febbraio e il 1 Marzo del 1943, quando, durante una incursione aerea delle forze alleate che bombardano a tappeto la città di Palermo, una bomba precipitò sulla chiesa di Santa Cita (che era già stata colpita il 22 Febbraio) causando il crollo della navata minore, di parte del tetto e recando notevoli danni a tutta la struttura dell’edificio. L’ingresso alla cripta venne murato da cumuli di macerie e detriti ed  andò in oblio per più di 50 anni. Si ripresenterà agli occhi dei primi visitatori (stupiti e affascinati) fortemente danneggiata e degradata, a causa sia della mancanza di aereazione che delle infiltrazioni di umidità.
Grazie all’opera di restauro è stato dunque possibile  ammirare la Cripta?
“Grazie all‘opera di restauro, rispose la dott.ssa Maria Oliveri,, fu possibile recuperare in parte l’aspetto originario della cripta, luogo sacro e cimiteriale: il soffitto e parti delle pareti si presentono oggi affrescate a motivi geometrici; il pavimento  in marmo, a scacchiera, bianco e nero; l’altare, il paliotto e gran parte delle pareti sono decorate con marmi policromi. Il tema dominante della decorazione è il ruolo salvifico di Maria, Madre di Dio, quale Mediatrice nel rapporto tra l’uomo-peccatore e Dio-padre. Nel 1689 (data scritta ai lati del paliotto d’altare) Suor Caterina Giudice, Venero baronessa del Magazzinacci e terziaria domenicana, “devotissima di questa Sacratissima Immagine” poiché “favorita dalla Vergine con grazie straordinarie” pur non facendo parte della famiglia Lanza, ma solo “per grande devozione e riconoscenza nei confronti” del simulacro della Madonna .”
Nel vano del sottoscala ci sono tre sarcofagi del Cinquecento. Il primo, sulla sinistra appartiene a Blasco Lanza ( 1466 – 1535 ): è una semplice cassa sepolcrale in bianco marmo con un breve epitaffio. Sotto la cassa di Blasco vi è un sarcofago che non reca nessuna lapide o iscrizione, su cui è raffigurata una nobildonna giacente, col capo reclinato su due cuscini. Il sarcofago sulla sinistra invece è di Castellana Centelles, seconda moglie di Cesare Lanza, conte di Mussomeli e figlio di Blasco, morta nel 1574.
Perché la cripta è rimasta interrata per mezzo secolo, senza che nessuno si ricordasse della sua esistenza?
Perché non esisteva più la memoria popolare. I quartieri nei pressi del porto durante la seconda guerra mondiale furono quasi rasi al suolo dai bombardamenti anglo americani. Negli anni immediatamente successivi al dopoguerra, la Conca d’oro fu invasa dal cemento delle nuove periferie che si estendevano a macchia d’olio. Gli abitanti dei quartieri del centro storico, che avevano perduto le loro case, ridotte a cumuli di macerie dalle bombe, si trasferirono in palazzoni di cemento armato senza storia né anima. A poco a poco le tradizioni popolari, i giochi, le feste patronali, le identità di ogni singolo quartiere vennero inghiottite nel nulla.
Tuttavia, “L’errore – come direbbe Leonardo Sciascia – fu quello di cercare nelle memorie del popolo, mentre più fondatamente si sarebbe dovuto cercare tra i manoscritti delle biblioteche”. 
Diversi autori attestarono infatti l’esistenza della cripta: – Antonino Mongitore in “Palermo divoto di Maria Vergine” 1719-1720; Gaspare Palermo nella sua “Guida istruttiva per potersi conoscere con facilità tanto dal siciliano che dal forestiere tutte le – magnificenze e gli oggetti degni di osservazione della città di Palermo” del 1816; – Girolamo Di Marzo Ferro “Guida istruttiva per Palermo e i suoi dintorni” 1858 – Gioacchino di Marzo in “I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI “1880-1883.
Quando fu creata la cripta e per quale scopo?
Antonino Mongitore, riferì come i Lanza possedevano fin dal 1506 una cappella nella vecchia chiesa di Santa Cita, così come fi attestato dal Testamento di Blasco Lanza, rogato dal notaio Matteo Fallera. La chiesa vecchia di Santa Cita o Santa Zita, era stata fondata dal mercante lucchese Michele Trentino nel Trecento; era poi stata donata dagli eredi di Trentino ai padri domenicani nel Quattrocento; ma era stata distrutta alla fine del Cinquecento per essere ricostruita più grande e più bella. Ottavio Lanza, primo principe di Trabia, ottenne nel 1614 in concessione una cappella nella nuova Chiesa e la possibilità di potere realizzare una cripta, dove trovare collocazione alle casse sepolcrali (dei membri della famiglia Lanza) che erano nella cappella della chiesa vecchia. Nel Medioevo si era diffusa infatti la consuetudine della pratica del seppellimento all’interno dei luoghi di culto, perché si riteneva che la santità del luogo fosse trasmessa anche al defunto. I religiosi concedevano alle famiglie agiate l’uso di cappelle destinate a sepolture all’interno delle chiese, garantendosi in cambio rendite utili al loro sostentamento e opere d’arte che arricchivano e impreziosivano il luogo sacro. Le famiglie più influenti e prestigiose, sceglievano la loro cappella in prossimità dell’altare maggiore, cioè vicino al luogo di maggiore santità, dove veniva celebrata la Messa e dove erano conservate le reliquie dei santi.
A chi appartengono le tombe della cripta?
Nel vano del sottoscala ci sono tre sarcofagi del Cinquecento. Il primo, sulla sinistra appartiene a Blasco Lanza ( 1466 – 1535 ): è una semplice cassa sepolcrale in bianco marmo con un breve epitaffio:
“D.O.M. Quem solum terries habuit lex utraque fulmen. Conditur hoc Blascus Lancea sarcofago, vixit annos 69; obit 8 Octobris Ind. IX 1535.
Blasco Lanza fu giurista, giureconsulto, giudice della Gran Corte, Deputato del Regno, Barone di Catania (1507) e Barone di Trabia (1509). Nato a Catania nel 1466, secondo il giurista Cutelli era figlio di uno scrivano di umili origini. Questa versione fu contestata dai discendenti: affermarono che egli sarebbe nato da un Manfredi, cadetto di Blasco Lancia barone di Longi. 
L’affermazione sociale fu rapida sia grazie al prestigio professionale che ai due matrimoni con ricche ereditiere. Sotto la cassa di Blasco vi è un sarcofago che non reca nessuna lapide o iscrizione, su cui è raffigurata una nobildonna giacente, col capo reclinato su due cuscini. Il sarcofago sulla sinistra invece è di Castellana Centelles, seconda moglie di Cesare Lanza morta nel 1574. Cesare Lanza, unico figlio maschio di Blasco, barone di Trabia e Conte di Mussomeli, aveva educazione militare e cavalleresca. Da qualche anno si suppone, risponde Maria Oliveri, che la tomba sotto quella di Blasco Lanza potrebbe appartenere alla nipote Laura Lanza, figlia di Cesare, più nota come la baronessa di Carini.
Nell’Ottocento la sua immagine di vittima di un delitto d’onore tipicamente siciliano ebbe grande fortuna e attraverso i cantastorie si diffuse per tutto il novecento fino a interessare lo stesso Pasolini. In realtà la storia di sangue e mistero dell’affascinante nobildonna ci è stata tramandata attraverso la tradizione orale in forme edulcorate che divergono dagli eventi realmente accaduti.
Si deve al Marchese di Villabianca, nella seconda metà del XVIII secolo la prima registrazione scritta della leggenda in ottave siciliane. Salomone Marino, medico di Borgetto, si occupò invece per primo di ricerche storiche sul caso sventurato della baronessa. Laura Lanza (1529 – 1563) più nota come Baronessa di Carini, come il padre e il nonno fece un matrimonio di convenienza, a soli quattordici anni andò in sposa al barone Vincenzo La Grua Talamanca. Il marito, suo coetaneo, poteva vantare addirittura sangue reale da parte di madre; ma le terre della baronia di Carini non rendevano più come una volta e la nobile famiglia si trovava in difficoltà economiche. Privo di capacità e di spirito di iniziativa, il barone si tenne sempre lontano dalla vita pubblica siciliana. Dal loro matrimonio nacquero 6 figli. Il barone tuttavia trascurava la moglie, lasciandola spesso sola, per gran parte dell’anno, nel castello di Carini. Laura aveva una relazione segreta con Ludovico Vernagallo. Il 4 Dicembre del 1563, colta in flagranza di adulterio, nel castello di Carini, venne uccisa insieme all’amante, secondo le logiche del delitto d’onore, dal padre o dal marito o probabilmente da entrambi.
L’atto di morte narra dei due infelici amanti, trascritto nei registri della Chiesa Madre di Carini reca la data del 4 Dicembre 1563.
Probabilmente furono seppelliti nella cripta della Chiesa Madre di Carini. Le ricerche dei RIS e dei periti non hanno però rinvenuto significative prove che dimostrino la presenza dei resti di Laura Lanza e Ludovico Vernagallo.
Potrebbe essere stata Laura seppellita nella cappella di famiglia, nella chiesa vecchia di Santa Cita e poi trasferita nella cripta insieme alle tombe della matrigna e del nonno?
Forse che si, forse che no, direbbe Pirandello. La famiglia Lanza era molto potente e molto temuta. Non ci fu nessun funerale per i due amanti, la notizia dell’assassinio per paura fu tenuta segreta. Il Paruta scrive nel suo diario: “Sabato a 4 Dicembre. Successe il caso della Signora di Carini”. Tuttavia il vicerè venne ugualmente a conoscenza del violento fatto di sangue: Cesare Lanza e il barone di Carini vennero banditi, i loro beni furono sequestrati ma entrambi si appellarono al delitto d’onore e la Giustizia li assolse.
Memoriale presentato da Don Cesare Lanza al Re Di Spagna Filippo II per discolparsi del delitto della figlia Laura. Sacra Catholica Real Maestà, Don Cesare Lanza, Conte di Mussomeli, fa intendere a vostra Maestà come essendo andato al castello di Carini a videre la baronessa di Carini, sua figlia, come era suo costume, trovò il barone di Carini, suo genero, molto alterato perché avia trovato in mismo istante nella sua camera Ludovico Vernagallo,  suo innamorato con la detta baronessa, onde detto esponente mosso da iuxto sdegno in compagnia di detto barone andorno e trovorno detti baronessa et suo amante nella ditta camera serrati insieme et cussì subito in quello stanti foro ambodoi ammazzati. Don Cesare Lanza Conte di Mussomeli
Una storia davvero avvincente!  Molti registi negli anni, infatti, ne hanno tratto dei film e commedie; un motivo in più per visitare Palermo e i suoi” tesori nascosti”, come la Cripta Lanza.
Chiara Fici







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Nota N. 5
Baronessa di Carini
Opera di Giuseppe Mulè

Nato a Termini Imerese era il quarto di cinque figli.
All’età di 20 anni conseguì il diploma di violoncello e successivamente quello di composizione, sotto la guida di Guglielmo Zuelli, presso il Conservatorio di Musica Vincenzo Bellini di Palermo.
Nel 1903, ancora non aveva finito gli studi accademici, compose un “Largo” per violoncello e pianoforte che fu utilizzato come sigla d’apertura nelle trasmissione radiofoniche nazionali “Eiar” e “Rai”.
Quando concluse gli studi al Conservatorio, si dedico alla carriera di direttore d’orchestra.
Fu direttore del Conservatorio di Palermo dal 1922 al 1825 e successivamente coprì la stessa carica presso il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma dal 1925 al 1945.
Fu segretario nazionale del Sindacato Nazionale Fascista Musicisti e, insieme ad Adriano Lualdi, capofila dell'area più reazionaria della poetica musicale del regime fascista. Durante il Ventennio osteggiò strenuamente con tutti i suoi mezzi ogni movimento di avanguardia modernista.
Era sposato con il soprano Lea Tumbarello (1893-1967).
Morì a Roma nel 1951 e fu sepolto nella sua Termini Imerese. Il figlio, Francesco Mulè, fu un attore cinematografico e teatrale di successo.
Baronessa di Carini è una tragedia lirica in un atto composta da Giuseppe Mulè su libretto del fratello Francesco Paolo Mulè. La prima rappresentazione si svolse al Teatro Massimo di Palermo, il 16 aprile 1912. L'opera, che rivelava il talento melodrammatico del compositore, fu accolta con grande entusiasmo dal pubblico siciliano.
Personaggi
- Caterina La Grua (interpretata da Claudia Muzio), figlia del barone di Carini. Donna sui venti anni.
- Don Vincenzo La Grua, barone di Carini. Uomo sui cinquantacinque anni, di carattere rigido e duro; tenace ed irremovibile nei suoi rancori. Odia spietatamente la famiglia di Vernagallo.
- Ludovico Vernagallo, cavaliere gagliardo e bello sui ventotto anni
- Matteo, uomo sui quaranta anni, brutto e un po' gobbo. È stato messo dal barone a custodia della figlia nel Castello di Carini. Ipocrita e malvagio, porta un saio da frate per nascondere sotto la maschera della religione i suoi istinti perversi.
- Violante, nutrice di Caterina, cinquantenne.
Trama
La vicenda si svolge nel 1563. Il castello di Carini, da sempre allegro e maestoso, è stato trasformato dal barone nella tetra prigione in cui rinchiude Caterina, sua figlia. La baronessa è colpevole unicamente di amare un giovane palermitano, Ludovico Vernagallo, di una casata nemica. Caterina è spiata da Matteo, malvagio lacchè del barone, che, invidioso del sentimento provato dai due amanti, decide di orchestrare un piano affinché Ludovico venga ucciso. Durante la notte, quest'ultimo riesce a intrufolarsi all'interno del castello e, con l'aiuto della nutrice Violante, a raggiungere le stanze di Caterina.
I due trascorrono la notte insieme ma alle prime luci dell'alba, improvvisamente, odono il canto dei contadini, dapprima gioioso e di buon auspicio, diventare grave e angosciante. Violante scorge una figura muoversi nella pineta che circonda la tenuta: è il barone che, allertato da Matteo, si dirige furioso verso il palazzo. Ludovico si nasconde frettolosamente ma, al tempo stesso, preoccupato per il destino di Caterina. Nel frattempo, il barone, sopraggiunto nelle stanze della figlia, la minaccia affinché gli confessi dove si nasconde il suo amante. Ludovico si rivela, pronto a morire pur di salvare Caterina. Il barone gli si scaglia addosso ma Caterina si interpone tra i due uomini e rimane ferita. L'uomo, sconvolto dal parricidio appena commesso, si dilegua. La tragedia è stata commessa: e, allora, Violante e Ludovico, chiamato inutilmente aiuto, restano al fianco della baronessa sino al suo ultimo respiro.
Titolo Originale: Baronessa di Carini
Lingua originale: Italiano
Genere: Tragedia Lirica
Musica: Giuseppe Mulè
Libretto: Francesco Paolo Mulè
Atti: Uno
Dedica: Al tuo nome santo, alla tua santa lacrimata memoria, povero diletto padre nostro
Prima Rappresentazione: 16 aprile 1912
Teatro: Teatro Massimo – Palermo
Personaggi: Caterina La Grua - soprano
Don Vincenzo La Grua - basso
Ludovico Vernagallo - tenore
Matteo - baritono
Violante - mezzosoprano

 
Barone di Carini (basso), figurino di artista ignoto per Baronessa di Carini (1912), 
Archivio Storico Ricordi


















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Nota N. 6
 
"L'amaro caso della baronessa di Carini"  è uno sceneggiato del 1975 diretto da Daniele D'Anza e trasmesso in 4 puntate sul Programma Nazionale (l'odierna Rai 1) dal 23 novembre al 14 dicembre 1975.

Scritto da Daniele D'Anza e Lucio Mandarà, si ispira a una ballata popolare siciliana, che narra di un delitto realmente avvenuto a Carini il 4 dicembre 1563: la baronessa di Carini, donna Laura Lanza, moglie di don Vincenzo La Grua-Talamanca, fu uccisa, ufficialmente per motivi d'onore, dal padre don Cesare Lanza. Nello sceneggiato, la data della morte è stata anticipata di otto mesi, il 4 aprile 1563. Nella prima puntata, prima dell'inizio della storia, compare lo sceneggiatore Lucio Mandarà insieme a Otello Profazio che spiega gli eventi reali e le modifiche apportate alla vicenda, in immagini girate in bianco e nero, intervistando gli abitanti di Carini. Lo sceneggiato venne realizzato a colori su pellicola cinematografica, ma nella prima trasmissione gli spettatori lo videro in bianco e nero; a colori venne trasmesso soltanto nelle repliche successive dal 1º febbraio del 1977, dopo l'avvio ufficiale delle trasmissioni col sistema Pal.
Venne prodotto da Arturo La Pegna per la CEP Produzioni Cinematografiche in collaborazione con la Rai. Paolo Stoppa, che impersona don Ippolito, oltre ad interpretare quel ruolo, nelle quattro puntate ha anche la funzione di narratore durante lo svolgimento della vicenda, rimanendo con gli abiti di scena a differenza di Accadde a Lisbona. Il consulente per la lingua siciliana è Andrea Camilleri.
 
Trama
 
Prima puntata
Sicilia, 1812. Sta per entrare in vigore la prima costituzione liberale, che mette fine ai privilegi dei grandi feudatari. Il rappresentante più autorevole del nuovo corso politico è il Principe di Castelnuovo, ministro delle finanze, che incarica un suo uomo, Luca Corbara, di svolgere indagini per accertare la legittimità del possesso dei feudi.
Come punto di partenza della sua ricerca, Luca sceglie il feudo Daina Sturi di Carini appartenente ad un barone, don Mariano D'Agrò. Al suo arrivo, il giovane assiste a un episodio di violenza: gli uomini di don Mariano percuotono un cantastorie, Nele Carnazza, reo di aver cantato una canzone proibita dal barone, la ballata che narra la tragica morte della baronessa di Carini, Caterina La Grua - Talamanca, uccisa per motivi di onore dal marito tre secoli prima.
Dalla gente del luogo, Luca è accolto con diffidenza e sospetto. I soli a dimostrargli simpatia sono il suo ospite don Ippolito, un bizzarro e filantropo amico del principe di Castelnuovo, e Cristina, la figlia del notaio di Carini.
Nella canzone di Nele, Luca crede di trovare una traccia per le sue ricerche: l'attuale feudo di Carini è probabilmente costituito in parte da terre usurpate all'amante della baronessa, che venne ucciso assieme a lei, e la legittimità del possesso del feudo da parte di don Mariano può forse essere messa in discussione.

I protagonisti Janet Agren (donna Laura D'Agrò) e Ugo Pagliai (Luca Corbara)

Il barone, oscuramente minacciato da una misteriosa setta, i Beati Paoli, sospetta di Luca, ritenendolo autore di un messaggio minatorio, e lo fa rinchiudere nel castello abbandonato che fu teatro dell'assassinio della baronessa. Luca è liberato da una donna misteriosa, che perde una preziosa spilla nel cortile del castello. Il giovane crede d'identificare la sua soccorritrice nella baronessa Laura, moglie di don Mariano. Invitato a una battuta di caccia dal barone, Luca salva la vita alla baronessa. La donna nega che la spilla trovata da Luca sia sua, nonostante appaia anche su un vecchio ritratto di famiglia presente nel palazzo.
Luca, recatosi successivamente a casa di Nele per avere altre informazioni sull'antica canzone, lo trova assassinato. Sorpreso da Rosario, l'uomo di fiducia del barone, il giovane si dà alla fuga e viene catturato da alcuni misteriosi incappucciati.
 
Seconda puntata
Accusato dai Beati Paoli dell'assassinio di Nele Carnazza e assolto dopo un bizzarro processo, Luca viene rilasciato. Dopo una fugace visita amorosa a Laura, il giovane si rifugia a Palermo, presso l'amico Enzo Santelia, segretario del principe di Castelnuovo. Ricevuto dal principe, Luca apprende che forse il Re dovrà rinunciare a promulgare la Costituzione e quindi la sua missione potrebbe essere annullata.
Recatosi all'interno di una chiesa, Luca scopre, leggendo un'iscrizione tombale, che la baronessa di Carini fu uccisa non dal marito, come erroneamente si crede, ma dal padre, don Cesare Lanza. Mentre Luca è preso dalle sue riflessioni, nella chiesa entra Laura: gli comunica che il barone ha scoperto il suo rifugio e lo invita a nascondersi in una torre sul litorale.
A Carini, intanto, i Beati Paoli rapiscono don Mariano D'Agrò.
 
Terza puntata
Il capo dei Beati Paoli offre a don Mariano la libertà, a patto che scagioni Luca Corbara dall'accusa di omicidio: il barone accetta e viene rilasciato. Laura informa quindi Luca che può tornare a Carini.
Tornato a Carini, Luca è rimproverato da don Ippolito, che vede addensarsi sul giovane amico alcuni nefasti presagi. Attorno all'amore tra Luca e la baronessa Laura sembra crearsi una misteriosa atmosfera, in cui pare rivivere il passato evocato dalla ballata: Laura è infatti una discendente della baronessa uccisa, la quale si chiamava anch'ella Laura e non Caterina, anch'ella protagonista di una segreta storia d'amore. Don Ippolito, temendo che la tragica vicenda possa ripetersi, invita ripetutamente Luca a troncare la relazione.
Il barone, rese pubbliche scuse a Luca, gli offre l'incarico di riordinare i suoi documenti. Luca accetta nella speranza di trovare tra le carte del barone qualche documento che provi l'usurpazione del feudo Daina Sturi.
Nel frattempo il capo dei Beati Paoli, la cui identità è avvolta nell'ombra, impone al barone di riconoscere Domenico Galeani, un suo figlio illegittimo, e di legittimarlo come proprio erede. Luca scopre che Giuseppe Carnazza, il figlio di Nele, è un membro della setta dei Beati Paoli e lo prega d'informarlo su ogni mossa della setta. Tra i membri della setta serpeggia però il malumore in seguito alla fuga di Rosario, l'assassino di Nele, che essi avevano catturato. Giuseppe accusa il capo di tradimento e per questo viene da lui ucciso.
Intanto Luca, approfittando dell'assenza del barone dal palazzo, trascorre con Laura una notte d'amore.
 
Quarta puntata
Durante una cena a palazzo, don Mariano organizza per il mattino seguente una visita al castello di Carini, a cui partecipano lo stesso barone, la baronessa Laura, Luca Corbara e Cristina, la figlia del notaio. Durante l'escursione i quattro raggiungono il luogo in cui tre secoli prima fu assassinata la baronessa di Carini. Sorta una controversia tra il barone e Luca circa la dinamica dell'avvenimento, il nobiluomo illustra la propria tesi, costringendo la moglie a inscenare con lui l'antico assassinio. Impaurita dalla spada estratta dal marito, la giovane si tradisce invocando il nome di Luca e gettandosi tra le sue braccia.
Luca apprende da Ignazio Buttera della morte di Giuseppe e i due si accordano per vendicare l'amico e sopprimere la setta dei Beati Paoli. Enzo Santelia si presenta sotto falso nome a palazzo D'Agrò per parlare con Luca: don Mariano, ascoltando di nascosto i loro discorsi, apprende dell'incarico governativo di Corbara. Dietro suggerimento di don Ippolito, Luca comincia a sospettare che Enzo Santelia sia in realtà Domenico Galeani, il figlio illegittimo del barone. Recatosi a palazzo, Luca legge l'atto con cui il barone riconosce Domenico, lasciato in bella vista proprio da don Mariano, che conta di servirsi di Luca per sbarazzarsi sia del figlio che dei Beati Paoli.

Il produttore Arturo La Pegna, l'attore Paolo Stoppa (don Ippolito) e il regista Daniele D'Anza in un momento di pausa sul set.

Incontratosi con Laura, Luca la mette al corrente di tutto, anche del suo incarico di ispettore governativo. Presentatosi in incognito alla riunione della setta a Palermo, Corbara ne smaschera e fa arrestare dalle truppe del principe di Castelnuovo il capo, che si rivela essere Enzo Santelia, ovvero Domenico Galeani.
Tornato a Carini, Luca sospetta che Laura, d'accordo col marito, abbia tramato alle sue spalle ed è caldamente invitato da don Ippolito a troncare ogni rapporto con la donna. Luca ammette di essere un discendente di Ludovico Vernagallo, l'amante della baronessa di Carini, e di essere intenzionato a riprendersi ciò che gli spetta: il feudo di Daina Sturi.
Convocato d'urgenza a palazzo D'Agrò per un grave malore della baronessa, Luca accorre trovando la donna in perfetta salute. Luca l'accusa di averlo attirato in una trappola e le mostra come prova le tante lettere anonime indirizzategli da una mano femminile: Laura riconosce la scrittura di Cristina, che ha scoperto essere l'amante di don Mariano.
I due iniziano a temere di essere le prossime vittime degli intrighi del barone. Ma è troppo tardi: ormai è il 4 aprile e, come don Ippolito aveva previsto con largo anticipo, il presagio di morte evocato dall'antica ballata finisce per avverarsi. Laura è assassinata, e stessa sorte tocca a Luca, pugnalato da Rosario. I corpi dei due sfortunati amanti, per ordine di don Mariano, sono infine adagiati sul letto, come quelli dei loro antenati tre secoli prima.
 Lo sceneggiato ebbe un grande successo in Spagna dove venne presentato alla televisione spagnola con il titolo:
El amargo caso de la baronesa Carini
 
Il teso della “Ballata di Carini” fuu scritto da Otello Profazio, tratto da una delle tante versioni del poemetto anonimo. Fu musicata da Romolo Grano e cantata, in lingua siciliana, da Luigi Proietti:
«Chianci Palermu, chianci Siracusa
a Carini c'è lu luttu in ogni casa.
Attorno a lu Casteddu di Carini,
ci passa e spassa nu beddu cavaleri.
Lu Vernagallu di sangu gintili
ca di la giuvintù l'onuri teni.
"Amuri chi mi teni a tu' cumanni,
unni mi porti, duci amuri, unni?"
Vidu viniri 'na cavallaria.
Chistu è me patri chi veni pi mmia,
tuttu vistutu alla cavallarizza.
Chistu è me patri chi mi veni a 'mmazza.
Signuri patri, chi vinisti a fari?
Signora figghia, vi vegnu a 'mmazzari.
Lu primu corpu la donna cadiu,
l'appressu corpu la donna muriu.
Nu corpu a lu cori, nu corpu 'ntra li rini,
povira Barunissa di Carini.»

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Nota N. 7
La Baronessa di Carini
Miniserie TV – Anno 2007
Genere: drammatico, giallo, in costume
Durata: 200 m
Lingua Originale: Italiano
Regia: Umberto Marino
Soggetto: Lucio Mandarà, Anna Samueli:
Sceneggiatura: Lorenzo Favella, Anna Samueli, Enrico Medioli;
Interpreti e soggetti:
Vittoria Puccini – Laura
Luca Argentero: Luca
Enrico Lo Verso: Don Mariano
Lando Buzzanca: Don Ippolito
Alessandro Dieli: capitano dei gendarmi
Simone Gandolfo: Santelia
Lucia Sardo: governante
Carmelo Rosario Cannavò: Don Desi
Franco Vella: contadino
Fotografia: Giovanni Cavallini;
Montaggio: Roberto Siciliano;
Musiche: Paolo Vivaldi;
Prima Visione dal 14 ottobre 2007 al 15 ottobre 2007
Rete Televisiva: Rai 1
La miniserie è un remake dello sceneggiato TV del 1975 L'amaro caso della baronessa di Carini, con Ugo PagliaiJanet AgrenAdolfo Celi ed Enrica Bonaccorti.
Trama
Sicilia, 1860. Laura viene data in sposa al barone di Carini, don Mariano La Grua, uomo violento e prepotente. La vita della giovane baronessa sembra destinata all'infelicità fino all'incontro con Luca Corbara, il quale giunge in Sicilia alla ricerca delle proprie origini, rappresentate da un medaglione sul quale è inciso un nome dall'oscura provenienza (Vernagallo).
Accompagnato a Carini da Enzo Santelia, suo vecchio amico, Luca viene a conoscenza della vicenda avvenuta trecento anni prima nel castello abbandonato dove l'allora baronessa venne uccisa dopo essere stata scoperta in compagnia del proprio amante. Quella tragica storia sembra ossessionare Laura, la quale è spesso preda di incubi e malesseri che le avvelenano l'esistenza. Luca la convince a farsi curare da un medico, l'eccentrico don Ippolito, che la sottopone ad alcune sedute d'ipnosi, durante le quali Laura sembra rivivere la tragica sequenza della baronessa uccisa, come in preda a una reincarnazione. Luca rifiuta l'idea che tra la “sua” Laura e quella donna uccisa tre secoli prima possa esserci un legame e, innamorato della baronessa, decide di fuggire con lei.
In procinto di lasciare Carini, Luca viene però catturato dai "Beati Paoli", un'inquietante setta segreta capitanata da un misterioso individuo che nasconde il proprio volto sotto un cappuccio nero. Accusato dell'omicidio di un cantastorie, Luca si proclama innocente e riesce a fuggire rifugiandosi presso l'amico Santelia. In occasione di un ballo, riesce finalmente a riabbracciare Laura. Per i due giovani amanti si riaccende la speranza: forse possono ancora fuggire imbarcandosi su una nave in procinto di salpare dal porto di Palermo. Ma all'ultimo momento il piano va in fumo e Luca non può far altro che tornare a Carini. Laura teme per la vita di entrambi ed insiste col dire che anche loro verranno scoperti e uccisi come i due amanti del cinquecento. Frattanto la dama di compagnia della baronessa, Cristina, scoperta la passione tra Laura e Luca, tende una trappola alla donna inducendola a dirigersi verso l'antico castello dei La Grua, inseguita di nascosto dal marito. Luca invece, volendo scoprire cosa davvero fosse successo ai suoi antenati, con l'aiuto di Ippolito viene sottoposto ad ipnosi, rivivendo così l'atto dell'uccisione degli amanti. Dopo essersi svegliato dallo stato ipnotico, Luca, ascoltando una breve discussione tra il parroco di Carini e il medico, apprende la notizia che Laura sta dirigendosi verso il castello inseguita da don Mariano, bramoso di vendetta, e decide così di scappare dallo studio di Ippolito per salvare la donna amata: è il 20 maggio 1860, giorno in cui 300 anni prima si consumò la sanguinosa vicenda di Laura e Ludovico. Arrivata al castello, Laura ritrova Luca ma, seguito dalla donna, entra Don Mariano che, sguainata la spada per lavare il disonore, ingaggia con Luca un duello all'ultimo sangue. Durante la lotta tra i due uomini, una torcia cade su di una tenda della stanza dell'antica baronessa, facendo divampare così un incendio. Luca riesce a colpire a morte il suo avversario che quindi cade sul pavimento esanime. A seguito di ciò, i due giovani cercano di scappare ma l'uscita viene bloccata dalla caduta delle travi del soffitto a causa dell'incendio. Memore però della seduta ipnotica che l'ha visto protagonista, Luca trova, sul muro dove la baronessa aveva lasciato la propria impronta insanguinata, una porta segreta che doveva fungere da via di fuga per gli antichi amanti. Aprendo il passaggio, i due riescono a sfuggire alla morte ritrovandosi in un corridoio che li porterà oltre le mura del castello. Ormai liberi e sempre più innamorati, Luca e Laura posso amarsi liberamente coronando allo stesso tempo il sogno d'amore della povera baronessa e del suo amante.
 
Produzione
Le riprese si sono svolte nel Lazio e in Sicilia utilizzando diversi palazzi per ambientare tutte le ricchissime scene di palazzo La Grua, dimora dei Baroni di Carini. Nel Lazio le riprese sono state effettuate a Palazzo Massimo ad Arsoli, circa 60 chilometri da Roma, la cui struttura risale al decimo secolo: era proprietà dei Benedettini ed è poi passato alla famiglia romana dei Massimo. Lì è stata ricostruita parte del palazzo La Grua, in particolare la camera da letto di Laura, il suo salottino, una veduta del giardino, la foresteria. A Roma, negli studi di Cinecittà sono state ricostruite invece le stanze e alcuni interni del castello cinquecentesco di Carini per realizzare le scene dei flashback e alcune scene d'amore tra Laura e Luca. Sempre nel Lazio, a Oriolo Romano e a Nepi, sono state girate tutte le scene della caverna dei Beati Paoli.
Il 2 aprile sono iniziate le riprese in Sicilia in alcune delle più belle ville dell'isola: Villa de Cordoba a Palermo, utilizzata come ingresso del palazzo La Grua per la sua splendida facciata; Villa Palagonia a Bagheria, dove sono ambientati alcuni corridoi; Villa Wirz a Partanna, usata per i giardini particolarmente rigogliosi e per i viali usati dai cavalieri; lo splendido Palazzo Mirto in cui sono state girate le scene della sala da pranzo e del salone dei ricevimenti della sontuosa dimora dei Baroni di Carini. Il castello di Mussomeli che tra l'altro è stato in passato proprietà di Cesare Lanza, padre di Laura divenuta baronessa di Carini, è stato usato come immagine e location del castello abbandonato dove nel '500 si compì il destino della baronessa. Altre scene sono state girate nella chiesa dello Spasimo a Palermo e nella chiesa della Martorana mentre alcuni degli splendidi esterni hanno come sfondo la piana degli Albanesi e la campagna vicino alle rovine del castello di Cefalà Diana. La troupe si è quindi trasferita a Erice che è stata usata come set della città di Carini.
Nel cast vi sono molti attori di origine siciliana non solo tra gli interpreti principali (Buzzanca, Lo Verso), ma anche negli altri ruoli al fine di sottolineare e mantenere il colore di questa regione così particolare. Tra gli aneddoti, un'inaspettata neve primaverile caduta su Arsoli durante le riprese e la carrozza della baronessa già utilizzata dal regista Luchino Visconti nel Gattopardo.
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Nota: N- 8
Le Chiese di Carini indagate per la sepoltura di Donna Laura Lanza.
Chiesa delle Anime Sante del Purgatorio


Secondo la tradizione carinese sarebbe la prima Chiesa Madre, costruita entro la cinta muraria del Castello, e confusa nei secoli con la vecchia chiesa di San Giuliano non più esistente. Nella realtà la chiesa del Purgatorio (XV-XVI secolo)  fu completata agli inizi del 1600, ed intitolata al Gesù e alle Anime Sante del Purgatorio. A unica navata, è ornata da stucchi e quadri riconducibili ai fratelli Manno e a Giovanni Patricolo. A suo interno si custodisce ancora la statua di fine Cinquecento che raffigura San Giovanni Battista, ancora oggi portata in processione a fine giugno.


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Nota 
Siti Archeologici

Data la storia della città e i molteplici insediamenti nel territorio, Carini presenta numerose aree archeologiche, in cui sono stati ritrovati reperti di varie epoche storiche:
- Area Archeologica Baglio-Carburangeli: consiste in una fascia di terra, con estensione mediamente pari a 150 m, che a partire dal Baglio di Carini, si estende per circa un chilometro verso sud-ovest, costeggiando nel primo tratto la costa e poi proseguendo nell'entroterra fin presso la grotta di Carburangeli. All'interno delle tombe a fossa, oggi distrutte dalle costruzioni di alcuni edifici, sono stati rinvenuti reperti che rilevano l'occupazione del territorio sin dal III secolo a.C. I reperti, conservati in parte presso il Museo Nazionale di Palermo, consistono in fondi di anfore, macine in pietra lavica, frammenti di lucerne e una base di colonna di marmo di epoca tardo romana.



- Area archeologica contrada “S. Nicola”: durante gli scavi effettuati nella zona sono stati rinvenuti importanti reperti di epoca romana bizantina, fra cui un mosaico basilicale e una moneta bizantina dell'età di Giustiniano. Nei pressi della contrada, individuata come possibile sede della “Hyccara” descritta da Tucidide, nella costa ad est di Carburangeli, è stata scoperta una zona ricca di ceramiche del V sec. a.C.




-        Area archeologica “Moscala”: vi sono presenti segni di un insediamento urbano, con tracce di mura, massi di tufo lavorato, utensili e frammenti di ceramica del III, IV e V sec. a.C.


-        Area archeologica “Manico di Quarara”: è stata ritrovata una necropoli della civiltà Elima.



- Area archeologica “Ciachea”: nei pressi del confine tra Capaci e Carini si estende una vasta necropoli, risalente all'eneolitico, dove è stata ritrovata la ceramica “Bicchiere di Carini”, unica nella sua fattura, datata nel 4.000 a.C.



Di notevole importanza sono le catacombe rinvenute nei pressi di Villagrazia di Carini, che si estendono per circa 3.500 m² e confermano l'esistenza di una vasta comunità cristiana nel territorio e, probabilmente, di una sede vescovile. Di notevole interesse sono le numerose grotte distribuite nel territorio, che hanno permesso il ritrovamento di numerosi resti di fauna preistorica.

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Nota N. 10
 
L'ultimo delitto d'onore fu in Sicilia nel 1964:
la relazione tra il professore universitario e Mariatena
Nel 1964 un maestro elementare uccise un professore del Magistero dopo aver scoperto che il docente era stato il seduttore della figlia. L'opinione pubblica si schierò con il padre
Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
2 aprile 2022

 Catania, 20 ottobre 1964, ore 18.
In via Ofelia si ferma una automobile di media cilindrata davanti all’Istituto Universitario di Magistero.


Dall’auto scendono un uomo sulla quarantina ed una ragazza poco più che diciottenne.
Lui è magro, vestito di nero. Il suo nome è Gaetano Furnari, maestro elementare di Piazza Armerina ed attivista comunista.
La ragazza è Maritena, Maria Catena, una studentessa inscritta al primo anno di corso dello stesso Magistero.
L' uomo, seguito dalla giovane, s' infila nel portone dell' istituto, sale di corsa le scale ed entra nell'aula dove sta tenendo esami il professore Francesco Speranza.
L’aula è affollata da numerosi studenti per gli esami della sessione autunnale. Il prof. Francesco Speranza ha 48 anni ed è titolare della cattedra di geografia presso l’Istituto di Magistero e presiede la commissione esaminatrice.
I docenti hanno appena finito di interrogare uno studente quando improvvisamente la porta dell’aula si spalanca e tra lo stupore e la curiosità dei presenti un uomo maturo si dirige con piglio deciso verso la cattedra. È magro, stempiato, pallido… ha una mano in tasca. Si ferma di fronte a Speranza, estrae una beretta 7,65 (che come si scoprirà veniva detenuta illegalmente) e la punta contro il docente esclamando:
“La conosci questa?”
Prima che Speranza riesca anche solo a esclamare qualcosa, l’uomo preme il grilletto e spara cinque colpi, uccidendo il docente. Gli studenti sono in preda al panico: si odono grida, vi è un gran trambusto. Qualcuno cerca invano di soccorrere il professore, che si è accasciato in un mare di sangue, ma ormai non c’è più nulla da fare…
Nella confusione generale Furnari fugge a precipizio dal palazzo e poi vaga senza meta per una decina di minuti; infine si costituisce in una caserma dei carabinieri:
“L’ho ucciso per vendicare l’onore della mia figliola”
dichiara ai militari che cercheranno di ricostruire l’antefatto del delitto.
 L' omicida viene accompagnato in questura assieme a Maritena, stordita e agitatissima. Interrogato sul movente del delitto, dichiara di aver ucciso il docente perché questi gli ha sedotto la figlia, sua allieva. La stessa Maritena, infatti, poche ore prima del delitto, in un' esplosione di rabbia, aveva raccontato al padre di essere stata violentata con l'inganno dal professore di geografia (ma si scoprirà poi che non c' è stato nessun inganno, tant'è vero che lo stesso Furnari sbotterà con amarezza: «Se l' avessi saputo, non l' avrei fatto!»).
 Ma come andarono realmente le cose?
Furnari abita a Piazza Armerina, in provincia di Enna, nella palazzina di famiglia dove sul portone vi sono ancora le iniziali di suo padre: Filippo Furnari. Da due anni la figlia diciannovenne Maria Catena, che tutti chiamano Maritena, si è trasferita a Catania per poter proseguire gli studi all’Università e vive in una pensione.
La studentessa teme a causa di un ritardo del ciclo di aspettare un bambino e lei stessa rivela al padre, di ritorno da scuola, di essere stata sedotta contro la sua volontà dal professore Speranza. La ragazza parla di un unico episodio di violenza. Il genitore rimane stravolto, piomba nella più cupa disperazione, si mette le mani sul viso e poi le dice

“Vestiti e andiamo a Catania. Dato che tu si stata posseduta dal professore Speranza è giusto che io vada da lui e che ti consegni a lui perché si prenda cura di te.”
I piani di Furnari tuttavia sono diversi da quelli che espone alla figlia, probabilmente per non metterla in allarme.
Il maestro e la figlia partono nel primo pomeriggio, prendono un’automobile a noleggio e chiedono all’autista di dirigersi direttamente al Magistero, dove nel pomeriggio Speranza deve fare gli esami. Poi l’arrivo in aula e la tragedia che la figlia non aveva previsto né immaginato. L’imputato, che presta fede al racconto di Maritena atteggiatasi a vittima di violenza carnale, durante il processo scoprirà che i fatti sono andati diversamente e che la ragazza era consenziente: tra il professore e la sua studentessa Maritena c'era una relazione.
Speranza è un cinquantenne brizzolato e di bell'aspetto. Colto al punto giusto, elegante nel portamento e signorile nei modi fare. Riscuote successo con le studentesse che gli ronzano attorno compiacenti. Tra queste la bella Maritena, esuberante e smaliziata, tutta presa dalla dolce vita catanese. L' alunna subisce il fascino del professore. Cede volentieri alle sue avance. Sale a bordo della sua Appia. E in una stanza del Paradiso dell' Etna soddisfa le voglie del docente-dongiovanni in cambio di un trenta e lode. Col padre, taciturno e tutto d' un pezzo, la ragazza ha poca confidenza. Anche perché Furnari è uno all' antica, un ortodosso della morale, rigido coi figli e intransigente con sé e con gli altri. Ma è anche un uomo buono - lo dicono tutti in paese - Un insegnante equilibrato dalla condotta irreprensibile. Che però quel giorno di ottobre, di fronte alla rivelazione della figlia, perde la testa. è un animale ferito a morte che non controlla i suoi istinti. 

Il maestro di Piazza Armerina viene processato nel novembre del 1965 per omicidio volontario. Furnari cerca di spiegare al processo la sua posizione:
“Quello che per me era un dubbio il giorno successivo quando mia figlia mi ha fatto la confessione è diventata una realtà… Mia figlia aveva 19 anni, era una signorina, era l’ultimogenita, l’unica figlia femmina… era tutto per me! Era quella che alimentavo direi quasi con il mio alito per portarla avanti. Avevo contato nello studio perché si portasse avanti, senza pretese comunque: quando lo vuoi fare l’esame lo fai, se non sei sufficientemente preparata ci rinunci, tanto il tempo non ha valore nel raggiungimento di uno scopo.”

La stampa mostra comprensione per l’assassino dai modi pacati e dalla voce flemmatica. I giornalisti scrivono che Furnari è un insegnante severo ma buono che viene guardato con rispetto a Piazza Armerina dove lo definiscono leale, equilibrato, comprensivo. Persino il pubblico ministero, il giovane Lorenzo Inserra, sembra cercare delle attenuanti al delitto e definisce il maestro «l'unico vero galantuomo del processo», colpevole solo di non aver saputo controllare la sua ira.
Giuseppe Alessi che regge il collegio di difesa afferma in modo teatrale che
“Il peccato e il delitto sono nati ed esplosi nella scuola: insegnante è l'omicida; docente universitario l'ucciso; studentessa del Magistero la sedotta; il banco, la cattedra, gli esami sono stati l'occasione e la degradante condizione del disonore e dell'omicidio! Ebbene, il Furnari, primo gradino della scala, ha incarnato la norma morale; ai vertici di quella piramide il professore di Università la ha infranto!».
La colpa moralmente più grave secondo la difesa è dunque quella di Speranza, che ha abusato della
sua posizione per poter soddisfare le sue voglie.
Alcuni giornali invece attaccano Maria Catena, definita “la ragazza trenta e lode”, che avrebbe ceduto alle avances del professore solo per ottenere un buon voto e che non ha esitato ad armare la mano dell’assassino, ricorrendo a una menzogna: ai giornalisti non è sfuggito lo schiaffo del giovane Dario Speranza, figlio del professore, alla studentessa nell’aula del processo. Del resto quando di questione di onore trattasi è opinione diffusa che la donna non sia mai esente da colpa…
Il 23 dicembre 1965, dopo 12 udienze, l'imputato viene riconosciuto colpevole ma i giudici gli concedono tutte le attenuanti del delitto d’onore: Furnari viene condannato a due anni e undici mesi di reclusione. Una pena mite, che fa del maestro di Piazza Armerina l' ultimo giusto vendicatore dell' onore. Il pubblico applaude la sentenza eppure l' avversione per l’art. 587 lentamente comincia a farsi strada. Nel clima crescente di indignazione di una parte dell’opinione pubblica interviene anche Leonardo Sciascia per esprimere un giudizio critico sull'assurdità e stupidità del delitto d'onore e sulla inciviltà dell'articolo di legge che lo contempla.
La sentenza Furnari del 1965 fu "l'ultima volta" del delitto d'onore in Italia: l’art. 587 non verrà più applicato, nel 1981 finalmente verrà abolito.



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Nel 1968 venne abrogato il reato di adulterio:
nel 1970 fu introdotto il divorzio;
nel 1978 venne regolamentato l’aborto;
il 5 settembre 1981, con la legge 442, vennero abrogate le disposizioni sul “Delitto d’Onore”.


Arringa dell'avvocato in «Divorzio all'italiana»
(Film di Pietro Germi del 1981)

https://www.youtube.com/watch?v=FewpiU54GTw&t=158s

Il 5 settembre 1981 in Italia vengono aboliti il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, due lasciti legali del Codice Rocco di epoca fascista. La loro abolizione è considerata un punto di svolta fondamentale per i diritti della persona in generale e delle donne in particolare.
Il delitto d’onore era un’espressione presente nel Codice Penale per indicare un particolare tipo di omicidio che, causato per difendere “l’onore”, risultava in una pena minore per l’assassino. Il Codice Penale stesso all’articolo 587 recitava:
“Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.” 
L’art. 587 del Codice Penale Rocco in vigore dal ventennio fascista, fino al 1981, concedeva in caso di omicidio per disonore, uno sconto della pena. In questo modo lo stato giustificava parzialmente il delitto stesso.
Il matrimonio riparatore era invece regolamentato dall’articolo 544, che recitava così:
Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio che l’autore del reato contragga con la persona offesa estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
Riassumendo, per il colpevole di stupro il reato si estingueva se lo stesso si rendeva disponibile a sposare la vittima, spesso minorenne. A sollecitare la richiesta del matrimonio riparatore erano soprattutto i familiari della vittima che non vedevano altra strada per ripristinare il loro onore perduto. Ciò sia per non alimentare il vociare popolare in una società spesso ancora di mentalità patriarcale e maschilista, sia perché la ragazza non essendo più “illibata”(vergine) avrebbe avuto difficoltà, a causa della mentalità sopra accennata, a trovare marito. A perdere l’onore, infatti, era solo la vittima e non il criminale che l’aveva violentata. Lo stupratore offrendosi di sposare la vittima accollandosi tutte le spese matrimoniali evitava la pena detentiva, il tutto in una visione per cui la donna era considerata un oggetto e una proprietà, ragion per cui se la si “rompeva” violentandola, bisognava “tenersi i cocci” e pagare i “proprietari”, ossia la famiglia di lei, sposandola. Va ricordato che all’epoca lo stupro viene infatti ancora considerato un reato non contro la persona ma contro la moralità pubblica e il buon costume. Solo nel 1996 lo stupro diventerà un reato contro la persona.

https://www.paesesera.toscana.it/aboliti-delitto-donore-e-matrimonio-riparatore-in-italia/#:~:text=Il%205%20settembre%201981%20in,e%20delle%20donne%20in%20particolare.

In quei tempi (anni ’60) fu ancora la Sicilia, con una episodio che fece tanto clamore, a sollecitare una revisione radicale del Codice Rocco.

Francia Viola fu la prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore.

Il 26 dicembre 1965, all’età di 17 anni, fu rapita da Filippo Melodia, un mafioso locale, con l’aiuto di 12 complici e quindi violentata, malmenata, lasciata a digiuno e tenuta segregata per otto giorni, inizialmente in un casolare al di fuori del paese, e poi in casa della sorella del Melodia. 
Il giorno di Capodanno, il padre della ragazza fu contattato dai parenti di Melodia per la cosiddetta “paciata”, ovvero per un incontro volto a mettere le famiglie davanti al fatto compiuto e far accettare ai genitori di Franca le nozze dei due giovani. Il padre e la madre di Franca, d’accordo con la polizia, finsero di accettare le nozze riparatrici e addirittura il fatto che Franca dovesse rimanere presso l’abitazione di Filippo.
Il giorno successivo, 2 gennaio 1966 la polizia intervenne all’alba facendo irruzione nell’abitazione, liberando Franca ed arrestando Melodia ed i suoi complici. Melodia fu infine condannato il 17 dicembre 1966 a 11 anni di carcere, ridotti il 10 luglio 1967 al processo di appello di Palermo a 10 anni con l’aggiunta di 2  anni di soggiorno obbligato nei pressi di Modena. Sentenza confermata in Cassazione il 30 maggio 1969.

Franca Viola, prima donna in Italia a opporsi al matrimonio riparatore.
La sua vicenda sollecitò il cambiamento nella legge relativa.



Franca Viola In Questura
La ragazza siciliana Franca Viola viene interrogata dalla polizia dopo la liberazione dai suoi rapitori e stupratori. Alcamo, 2 gennaio 1966 (Foto di Mondadori via Getty Images)

Le disposizioni sul delitto d’onore e sul matrimonio riparatore vennero quindi abrogate con la legge n. 442/1981. Un’abrogazione che arrivò quindi in un periodo di grande fermento sociale, dopo il referendum sul divorzio del1974 e la riforma del diritto di famiglia dell’anno dopo.

Il codice Rocco fu quindi modificato ma sarebbe il codice penale tuttora in vigore in Italia e nel 2018, in giorno a noi vicini dato che siamo nel 2023.
Ci fu una sentenza su un femminicidio della 46enne ecuadoregna Jenny Angela Coello Reyes, avvenuto a Genova nel 2018 per mano del suo connazionale Javier Napoleon Pareja Gamboa.
Il PM aveva chiesto 30 anni per l’assassino di Jenny Angela Coello Reyes, la donna colpita con diverse coltellate al petto dopo che il suo compagno scoprì che non aveva mantenuto la promessa di lasciare il suo amante.
L’uomo fu invece condannato a 16 anni.
La motivazione della condanna emessa dal giudice?
L’omicida era mosso
“da un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento”
nei confronti di lei.
La sentenza provocò forti e legittime reazioni di critica…
.«Sebbene nessuno abbia il coraggio di dirlo, con questa motivazione si sta
riesumando il delitto d’onore»
«si sta assistendo a un orientamento più culturale che giuridico, dove si motivano
gli omicidi a sfondo passionale in un circuito di tempesta emotiva».
affermò il legale (avv. Giuseppe Maria Gallo) della vittima.
Il delitto d’onore prevedeva, affinché venisse applicata l’attenuante, che vi fosse uno stato d’ira per l’onore offeso una
«illegittima relazione carnale»
riguardante una delle donne della famiglia.
Il legale presentò istanza formale alla Procura di Genova per impugnare la sentenza, ma il PM, nonostante l’iniziale richiesta di 30 anni, l’ha respinta
«perché il pronunciamento del giudice era ben motivato».















Non fu una sentenza isolata.
Nel 2019 la Corte d’Appello di Bologna dimezzò la pena a Michele Castaldo da 30 anni a 16 anni per il suo stato emotivo?
Un articolo del giornalista David Puente parlò di questione complessa e di motivazioni diverse.
La Sentenza d’Appello nei confronti di un uomo di Riccione, Michele Castaldo condannato per aver ucciso la compagna Olga Matei. La sentenza suscitò molte critiche-
La pena sarebbe stata dimezzata perché l’assassino era in preda ad una
Tempesta emotiva.
Fu condannato in primo grado nel 2017 a 30 anni di reclusione.
In Appello l’avvocato difensore chiese l’esclusione delle aggravanti o del riconoscimento delle attenuanti generiche  con l’obiettivo di ridurre la pena.
La Corte di Bologna, con sentenza del 14 novembre 2018 e depositata l’8 febbraio 2019, ridusse la pena da 30 anni a 16 anni di reclusione e riportò le motivazioni che portarono i giudici al riconoscimento delle attenuanti generiche. Citò la “tempesta emotiva” che tuttavia non fu, secondo altre critiche, la motivazione determinante.
La Sentenza d’Appello
I giudici hanno rigettato la richiesta d'appello della difesa in merito all'esclusione delle aggravanti dei futili motivi, confermandoli a pieno non ritenendo in alcun modo lo «stato di gelosia»  incompatibile con la aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p. È stata proprio la gelosia a scatenare il litigio nella coppia, come l'imputato stesso ha affermato prima e durante il processo. Erano bastati dei messaggi sul cellulare di lei da parte di alcuni uomini per scatenare in lui una situazione di rabbia iniziale che lo portarono ad andarsene di casa in segno di protesta. Tornato nell'abitazione, dopo diversi via e vai, lui le aveva confidato le sue insicurezze senza ottenere una risposta positiva da lei tanto che, dimostrandosi indifferente, lo invitò ad andarsene. A quel punto Michele Castaldo aveva perso la testa, come dichiarato durante il processo ai giudici: «lei non voleva più stare con me. Le ho detto che lei doveva essere mia e di nessun altro. L 'ho stretta al collo e l'ho strangolata».
 
Le Attenuanti Generiche
In Appello, rispetto alla prima sentenza del Tribunale di Rimini, furono invece accolte le circostanze attenuanti generiche:
-        La confessione dell’imputato, sia per il delitto sia per l’ammissione delle circostanze che portarono all’aggravante per futili motivi;
-        Il tentativo da parte sua di iniziare a risarcire la figlia minore della vittima, un gesto che portava a considerare il fatto che riconoscesse ancora di più la gravità del delitto da lui commesso.
Il giornalista mise anche il risalto come fosse strano sostenere cge lo stato emotivo dell’assassino risulti, nello stesso processo, un elemento a sostegno dell’aggravante (assassinio della giovane donna) e nello stesso tempo anche un elemento utile per riduzione della pensa.
Si fece riferimento alla letteratura giuridica e in particolare alla rivista giuridica “Giurisprudenzapenale.com”  che riportò un articolo in merito alla sentenza:
Quanto al tipo di valutazione richiesta al giudice, in giurisprudenza è ricorrente il principio secondo cui, nel motivare il diniego della concessione delle generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione.
Da ciò se ne ricava che la Corte sarebbe potuta giungere alla medesima conclusione cui è effettivamente giunta – ossia una rideterminazione della pena sulla base del riconoscimento delle attenuanti generiche che erano state negate in primo grado – anche senza pronunciarsi sulla rilevanza degli stati emotivi o passionali e giustificando il riconoscimento delle attenuanti generiche sulla base di altre circostanze quali, ad esempio, l’assenza di precedenti penali o la confessione dell’imputato.
Secondo la rivista giuridica la corte poteva fare a meno d’esprimere o pronunciare gli stati emotivi dell’imputato per giustificare il riconoscimento delle attenuanti generiche.
Vennero citati a riconoscimento delle attenuanti generiche, il forte stato di gelosia  e la “soverchiante tempesta emotiva e passionale” dell’imputato.
Ma questi “stati emotivi o passionali” non vanno per nulla ad incidere sull’impunibilità ai sensi dell’articolo 90 del Codice Penale:
Articolo 90 Codice penale
(R.D. 19 ottobre 1930, n.1398)
Stati emotivi o passionali
Gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l'imputabilità [c.p.p. 220](1).
(La disposizione in esame si riferisce agli stati emotivi e passionali che sono verificabili in una persona sana e, come tale, ritenuta idonea a controllare la propria affettività (si pensi alla gelosia). Questi non possono escludere o diminuire l'imputabilità in quanto possono assumere rilevanza come cause di esclusione o attenuazione dell'imputabilità solo quegli stati emotivi e passionali che dipendono da una vera e propria infermità di mente. Di qui la considerazione di inutilità della norma, espressa da larga parte della dottrina).
Ratio Legis - Nonostante larga parte della dottrina reputi tale norma di vana utilità, si coglie comunque un preciso intento del legislatore, ovvero quello di evitare che possa essere considerato non punibile qualunque delitto impulsivo, indipendentemente da uno stato di menomazione della lucidità del soggetto agente.
Spiegazione dell'art. 90 Codice Penale
Gli stati emotivi o passionali, pur potendo incidere in maniera più o meno massiccia sulla lucidità mentale di un soggetto, sono per espressa disposizione legislativa inidonei ad escludere l'imputabilità.
Affinché possano assumere rilevanza vi è bisogno di un quid pluris, rappresentato da un fattore determinante che si traduca in un vero e proprio stato patologico, sia pure momentaneo e pur senza assumere i tratti di una patologia clinicamente nominata.
 Gli stati emotivi e passionali devono quindi degenerare in un vero e proprio squilibrio mentale al fine di escludere o diminuire l'imputabilità ai sensi degli artt. 88 e 89.
Esemplificativamente, la gelosia, classico esempio di stato passionale, non può di per sé incidere sulla imputabilità, ma se provoca disordine nelle funzioni della mente e perturbazioni in quelle della volontà diventando un fuoco divoratore, una forza cieca dello spirito, può costituire una forma morbosa diagnosticabile che esclude o diminuisce la capacità di intendere e di volere.
Massime relative all'art. 90 Codice Penale
Cass. pen. n. 9843/2013
Ai fini dell'imputabilità nessun rilievo svolgono gli stati emotivi e passionali, salvo che essi non si inseriscano eccezionalmente in un quadro più ampio di "infermità", tale per consistenza, intensità e gravità da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il reato sia causalmente determinato dal disturbo mentale.
Cass. pen. n. 37020/2006
La gelosia quale stato passionale, in soggetti normali, si manifesta come idea generica portatrice di inquietudine, non diminuisce e tanto meno esclude la capacità di intendere e di volere del soggetto, salvo che essa derivi da un vero e proprio squilibrio psichico il quale deve presupporre uno stato delirante tale da incidere sui processi di determinazione e di auto-inibizione.
Cass. pen. n. 24696/2004
In tema di imputabilità, la capacità di controllo delle proprie azioni va distinta dalla capacità di intendere e di volere, in quanto capacità del soggetto di modulare e calibrare la sua condotta in funzione di elementi condizionanti di ordine etico, religioso ed educativo che, afferendo ed integrandosi nel nucleo della personalità del soggetto, lo dotano sia del senso critico che di quello autocritico, e che agiscono come modulatori dell'istintualità e dell'impulsività. Ne consegue che l'indebolimento dei freni inibitori, non dipendente da un vero e proprio stato patologico, non incide sulla capacità di intendere e di volere e quindi sull'imputabilità.
Cass. pen. n. 24614/2003
In tema di imputabilità, le anomalie che influiscono sulla capacità di intendere e di volere sono le malattie mentali in senso stretto, cioè le insufficienze celebrali originarie e quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche, contraddistinte, queste ultime, da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità. Ne consegue che esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche, come le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere non rilevanti ai fini dell'applicabilità degli artt. 88 e 89 c.p., in quanto hanno natura transeunte, si riferiscono alla sfera psico-intellettiva e volitiva e costituiscono il naturale portato di stati emotivi e passionali.
Cass. pen. n. 967/1998
Gli stati emotivi o passionali, per loro stessa natura, sono tali da incidere, in modo più o meno massiccio, sulla lucidità mentale del soggetto agente senza che ciò, tuttavia, per espressa disposizione di legge, possa escludere o diminuire l'imputabilità, occorrendo a tal fine un quid pluris che, associato allo stato emotivo o passionale, si traduca in un fattore determinante un vero e proprio stato patologico, sia pure in natura transeunte e non inquadrabile nell'ambito di una precisa classificazione nosografica. L'esistenza o meno di detto fattore va accertata sulla base degli apporti della scienza psichiatrica la quale, tuttavia, nella vigenza dell'attuale quadro normativo e nella sua funzione di supporto alla decisione giudiziaria, non potrà mai spingersi al punto di attribuire carattere di “infermità” (come tale rilevante, ai sensi degli artt. 88 e 89 c.p., ai fini della esclusione e della riduzione della capacità d'intendere e di volere), ad alterazioni transeunti della sfera psico-intellettiva e volitiva che costituiscano il naturale portato degli stati emotivi o passionali di cui si sia riconosciuta l'esistenza.
Cass. pen. n. 1435/1996
La falsa opinione sul tradimento del coniuge può atteggiarsi o come idea portatrice di inquietudini, di per sé sole ininfluenti, o come stato delirante che, nell'incidere sul processo di determinazione e di inibizione, travolge l'agente in una condotta abnorme e automatica. Solo in questa seconda ipotesi può parlarsi di infermità mentale dipendente da causa patologica e idonea ad escludere o ad attenuare fortemente la capacità di intendere e di volere. (Fattispecie relativa a uxoricidio).
Cass. pen. n. 11373/1995
In tema di imputabilità, affinché una reazione «a corto circuito» costituisca manifestazione di una vera e propria malattia che comprometta la capacità di intendere e di volere del soggetto, è necessario che essa si inquadri in una preesistente alterazione patologica comportante infermità o seminfermità mentale. Quando la reazione a corto circuito si ricolleghi a semplici manifestazioni di tipo nevrotico o ad alterazioni comportamentali prive di substrato organico, essa si configura come situazione di turbamento psichico transitorio, qualificabile come stato emotivo o passionale, tale da non escludere né diminuire l'imputabilità a norma dell'art. 90 c.p.
Cass. pen. n. 4954/1993
In tema di imputabilità, gli artt. 88 e 89 c.p. postulano una infermità di tale natura e intensità da compromettere seriamente i processi conoscitivi e volitivi della persona, eliminando o attenuando la capacità della medesima di rendersi conto del significato delle proprie azioni e di comprenderne, quindi, il disvalore sociale, nonché di determinarsi in modo autonomo. Le infermità che influiscono sulla imputabilità sono le malattie mentali in senso stretto, cioè le insufficienze cerebrali originarie e quelle derivanti da conseguenze stabilizzate di danni cerebrali di varia natura, nonché le psicosi acute o croniche. Queste ultime sono contraddistinte da un complesso di fenomeni psichici che differiscono da quelli tipici di uno stato di normalità per qualità e non per quantità, come accade invece per il vasto gruppo delle «abnormità psichiche», quali le nevrosi e le psicopatie, che non sono indicative di uno stato morboso e si sostanziano in anomalie del carattere o della sfera affettiva, non rilevanti ai fini dell'applicabilità degli artt. 88 e 89 c.p. Ne consegue che, quando a causa di una situazione conflittuale dovuta a particolari tensioni psichiche si determini un'accentuazione di alcuni tratti del carattere del soggetto, inducendolo, come avviene nelle reazioni «a corto circuito», a tenere una condotta animale, non si può certamente parlare di malattia di mente, sicché la disposizione cui occorre riferirsi è quella di cui all'art. 90 c.p.
Cass. pen. n. 1347/1991
Gli stati emotivi e passionali, che a norma dell'art. 90 c.p., non escludono né diminuiscono l'imputabilità, possono in via eccezionale influire su questa solo quando, esorbitando dalla sfera puramente psicologica, degenerino in un vero e proprio squilibrio mentale con disordine e perturbazioni nelle funzioni della mente e della volontà, sì da eliminare o attenuare le capacità intellettive e volitive.
Cass. pen. n. 6710/1983
Gli stati emotivi e passionali, che, a norma dell'art. 90 c.p., non escludono né diminuiscono la imputabilità, possono eccezionalmente avere rilievo sull'anzidetta imputabilità allorquando travalichino la sfera puramente psicologica e degenerino in un vero e proprio, anche se transeunte, squilibrio mentale. Ne deriva che la gelosia, la quale costituisce uno stato passionale privo delle anzidette caratteristiche degenerative, è inoperativa ai fini della imputabilità. (Nella specie, sulla base dell'enunciato principio, si è disattesa la censura della difesa, secondo cui i giudici di merito non avrebbero tenuto conto della incidenza del prorompente sentimento di gelosia dell'imputato, rifiutandosi di considerare l'automatismo dell'azione, la obliquità dei colpi inferti sulla superficie addominale della vittima e soprattutto la significativa incertezza nel racconto inerente alle modalità di esecuzione della condotta delittuosa).
Cass. pen. n. 3171/1981
Il semplice stato di agitazione non determina infermità che faccia escludere la capacità di intendere e di volere, non essendo un vero e proprio stato morboso.
 
 Durante il processo si ritenne che il sentimento provato sia «certamente immotivato e inidoneo a inficiare la capacità di autodeterminazione dell’imputato», escludendo dunque l'eventuale infermità mentale:
Alla luce di tali emergenze processuali il giudice, rilevando che gli stati emotivi e passionali che non si inseriscano in un quadro di infermità sono ininfluenti ai fini della imputabilità, riteneva sussistente la responsabilità del Castaldo e sussistente l'aggravante dei motivi abietti e futili, sostanzialmente ammessi dallo stesso imputato, che aveva spiegato il gesto col fatto che la donna non lo voleva ascoltare e aveva manifestato l'intenzione di lasciarlo.
Conclusioni
Castaldo fu condannato all'ergastolo in primo grado, ma con rito abbreviato, dunque ha avuto accesso a un primo sconto di pena a 30 anni. In secondo grado, la pena comminata avrebbe dovuto essere pari a 24 anni, tenendo conto delle attenuanti generiche, ma per effetto del rito abbreviato scese a 16 anni. Affermare che la pena sia stata dimezzata per il riconoscimento di una «tempesta emotiva» risulta errato. La reale motivazione del passaggio da 30 a 16 anni di reclusione fu dovuta alle attenuanti generiche riconosciute in secondo grado, ossia la confessione dell'imputato – sia per il delitto sia per l'ammissione delle circostanze che hanno portato all'aggravante per futili motivi – e il tentativo da parte sua di iniziare a risarcire la figlia minore della vittima.

ENCICLOPEDIA DELLE DONNE

 


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El emocionante cántico de las mujeres en la manifestación en la huelga de Bilbao
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2018/03/el-emocionante-cantico-de-las-mujeres.html


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 L’ENCICLOPEDIA DELLE DONNE (Seconda Parte)
ALCUNE DONNE IMPORTANTI DELL’ANTICHITA’….
Aspasia...La Pizia, Cinisca… Atlete Vittoriose nelle Olimpiadi …le Allieve della Scuola Pitagorica di Kroton…..Ipazia…
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2019/05/lenciclopedia-delle-donne-seconda-parte.html

 

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MONTE PELLEGRINO (RNO) (Palermo):
 “Il Promontorio più bello al mondo…”
Parte Terza:
La Palazzina Cinese –  Le Statue del Parco della Favorita (Parte integrante della Riserva di Monte Pellegrino) –
Museo Etnografico Giuseppe Pitrè -  Le Scuderie Reali –
Nella Palazzina Cinese c’è l’anima della Regina Maria Carolina d’Asburgo-Lorena
 (Enciclopedia delle Donne).

https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2019/08/monte-pellegrino-rno-il-promontorio-piu_15.html

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ENCICLOPEDIA DELLE DONNE – (Terza Parte) –
LE PRIME MEDICHE DELLA STORIA
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2019/09/enciclopedia-delle-donne-terza-parte-le.html
 
 
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ENCICLOPEDIA DELLE DONNE (QUARTA PARTE) –
COSTANZA D'ARAGONA -
LA PRIMA MOGLIE DELL'IMPERATORE FEDERICO II DI SVEVIA
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2020/01/enciclopedia-delle-donne-quarta-parte.html
  


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ENCICLOPEDIA DELLE DONNE (QUINTA PARTE) –
JOLANDA (ISABELLA) DI BRIENNE
SECONDA MOGLIE DELL'IMPERATORE FEDERICO II DI SVEVIA
REGINA DI GERUSALEMME E DI SICILIA

https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2020/01/enciclopedia-delle-donne-quarta-parte_5.html

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Enciclopedia delle Donne (Sesta parte) –
Le Poetesse Siciliane del Risorgimento
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2020/07/enciclopedia-delle-donne-sesta-parte-le.html

 

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Enciclopedia delle Donne (Settima Parte)
Eleonor de Moura
Prima ed unica donna Vicerè di Spagna in Sicilia - In 27 giorni di reggenza tante leggi anche a favore delle donne in difficoltà – 
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2020/08/eleonor-de-moura-prima-ed-unica-donna.html

 
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Enciclopedia Delle Donne - VIII Parte
Eleonora Alvarez de Toledo e i suoi tempi
Un periodo ricco di manifestazioni di altissima cultura ma anche di gravi atti nei confronti delle
donne ..La morte di Maria de' Medici, Isabella de' Medici, Leonor Alvarez de Toledo, ecc.
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2020/11/eleonora-alvarez-de-toledo-e-i-suoi.html



 
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Enciclopedia delle Donne (IX parte)
Damarete di Agrigento (VI secolo a.C.)
La prima donna della storia a protezione dell'Infanzia –
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2020/12/damarete-di-agrigento-vi-secolo-ac-la.html


 
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Enciclopedia delle Donne: X Parte
La triste storia dell’etera Laide di Hykkara 
La Prostituzione Sacra –  Le divinità: da Inanna all’eroina Afrotide (?)
Un Piccolo viaggio anche ad Erice e Pantelleria.
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2021/01/la-triste-storia-delletera-laide-di.html
 
 
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ENCICLOPEDIA DELLE DONNE - XI PARTE
LE FILANDIERE - IL FILO DELLA MEMORIA –
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2021/01/le-filandiere-il-filo-della-memoria.html

 
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Dedicato alle Donne Afghane… al loro coraggio..           افغان میرمنو ته د دوی زړورتیا ته وقف شوی.
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2023/02/dedicato-alle-donne-afghane-al-loro.html
 
 


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ENCICLOPEDIA DELLE DONNE – XII CAPITOLO
Le Donne dell’Afghanistan – La Regina Soraya Tarzi (1926 - 1929) -- Prima Parte
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2023/06/enciclopedia-delle-donne-xii-capitolo.html
 
 
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Enciclopedia delle Donne - XII Capitolo - 2° Parte  
I Sovrani d'Afghanistan, Amanullah Khan e Soraya Tarzi in visita di Stato
in Egitto ed Italia (1927 - 1928)
Egitto: La triste vita della regina Nazli Sabri
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2023/06/enciclopedia-delle-donne-xii-capitolo-2.html
 
 
 
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Enciclopedia delle Donne - XII Capitolo - 3° Parte
I Sovrani d'Afghanistan Amanullah Khan e Soraya Tarzi in visita di Stato (1928):
Francia - Gran Bretagna – Germania
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2023/06/enciclopedia-delle-donne-xii-capitolo-3.html
 

 
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Enciclopedia delle Donne - XII Capitolo - 4° Parte
I Sovrani d'Afghanistan Amanullah Khan e Soraya Tarzi in visita di Stato (1928):
Polonia - Unione Sovietica -Turchia
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2023/06/enciclopedia-delle-donne-xii-capitolo-4.html
 
 

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Enciclopedia delle Donne - XII Capitolo - 5° Parte
I Sovrani d'Afghanistan Amanullah Khan e Soraya Tarzi in visita in Iran (1928)
L'Abdicazione - L'Esilio a Roma
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2023/06/enciclopedia-delle-donne-xii-capitolo-5.html
 
 
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Enciclopedia delle Donne- XII Capitolo - 6° Parte
La discendenza dei Sovrani d'Afghanistan, Amanullah Khan e Soraya Tarzi
Le mogli di Amanullah - i Documenti Storici - I Sovrani fra la loro gente
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2023/06/enciclopedia-delle-donne-xii-capitolo-6.html
 
 
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Enciclopedia delle Donne - XII Capitolo - 7° Parte
I Sovrani d'Afghanistan Amanullah Khan e Soraya Tarzi ricordati dalle figlie.
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2023/06/enciclopedia-delle-donne-xii-capitolo-7.html
 
 
 
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Enciclopedia delle Donne- XII Capitolo – 8° Parte
L’Album di Famiglia di Amanullah Khan e di Soraya Tarzi,  sovrani d'Afghanistan
https://sicilianaturacultura.blogspot.com/2023/06/enciclopedia-delle-donne-xii-capitolo-8.html
 

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